Il canto del Bardo
Racconti

 
Per sempre

DAVIDE

Ancora non so se ho sognato. 
No, lo so. Non era un sogno. Purtroppo non è stato soltanto un incubo. Questa cosa ha cambiato la mia vita. Ha distrutto un rapporto che, ora lo comprendo, poteva essere un vero amore. Mi ha segnato al punto che non so se riuscirò mai più a recuperare una visione serena e ragionevole dell’esistenza stessa.
A volte cerco di dimenticare tutto. A volte invece vorrei ricordare di più, per essere certo che i miei incubi non si trasformeranno mai in realtà. Ma ad ogni tentativo mi pare di sprofondare, di precipitare, e i miei stessi ricordi sembrano cambiare di volta in volta, mai esattamente uguali. 
Per questo ora cerco di mettere tutto per iscritto, nel tentativo di dare dei contorni più precisi agli avvenimenti di quella notte. Cercherò di includere anche ciò che Lorella mi confidò nei pochi incontri che ancora avemmo in seguito, prima che la reciproca compagnia ci diventasse insopportabile, irrimediabilmente guastata proprio da quei ricordi.
Quella notte... Devo iniziare tutto dal principio, dal pomeriggio. Anzi da prima, molto prima. Da sei mesi prima, quando mi misi con Lorella.
Lorella, cara piccola Lorella. Così carina, così dolce, così dannatamente sexy. Pelle ambrata, occhi azzurri, capelli color miele. Piccola, formosa, piccante. E così cocciutamente ritrosa. 
Un corpicino fatto per il sesso. Ecco cosa pensavo di lei. Non che mi ci fossi messo insieme solo per quello, no. Lorella mi piaceva davvero, in tutto. Era spiritosa, intelligente, brillante. Forse un po’ giovane. Io già ventiseienne, e lei coi suoi diciott’anni appena compiuti... e un sacco di sciocchezze melense in testa sul “Vero Grande Amore”. 
Ripeto, non è che non l’amassi, ma insomma, ormai siamo nel terzo millennio, e lei con tutta la sua appassionata verginità addosso... Mi faceva impazzire. 
Mi si strusciava contro, e poi si negava. Con quei suoi vestitini corti e svolazzanti, quelle curve così evidenti, stuzzicanti. Ma lei no. Voleva “essere sicura”, lei. Che questa fosse “la storia giusta”. E io ad aspettare. 
“Ma davvero mi ami? E non mi lascerai? E staremo insieme PER SEMPRE??”
Ecco, quello non lo sopportavo proprio. Arrivavo a dirle che sì, l’amavo, l’amavo davvero, e probabilmente ero sincero. Ma “Per sempre”! Com’é possibile dire “Ti amerò per sempre” a qualcuno senza mentire? Come si può prevedere cosa si proverà tra uno, due, dieci, vent’anni? Come prevedere i cambiamenti propri, altrui e del mondo circostante? 
No, “Per sempre” non l’avevo e non l’avrei mai detto. Ma lei, testarda, non cedeva. Voleva sicurezze, diceva. 
“Ti desidero tanto anch’io, Davide. Ma ho bisogno di sicurezze...”
Così, tra ansiti e gemiti, si arrivava sempre sul punto di... e poi niente. Pianti, scuse, sospiri. E niente.
Fu quello il motivo. Il motivo di tutto. Dovevo trovare un sistema, il modo di disarmarla, di renderla più cedevole, più vulnerabile... e la chiave poteva essere… La PAURA. Sì, quello poteva essere un buon sistema. 
Ricordai la sera che in macchina ci eravamo addentrati per un tratto tra gli alberi di un boschetto, e lei credeva di sentire strani rumori intorno. Era stata la volta che ci ero andato più vicino... Lorella tremava, aggrappandosi a me  ripeteva “Stringimi, stringimi, ho tanta paura” 
E poi con un sospiro, gli occhi chiusi, la testa rovesciata indietro, il fiato corto, la camicetta già aperta, la gonna tirata su oltre la vita, la sua gola esposta, le sue gambe così bianche... ecco, sì...sì... 
“NO! No, ti PREGO. No. Fermati, non possiamo adesso. Non posso... Dimmi che mi ami davvero...”. Un inferno.
Fu così che mi venne in mente la casa. Quella casa abbandonata che avevo visitato un pomeriggio con un gruppo di amici, un paio d’anni prima. Mi aveva dato i brividi, anche in quel pomeriggio torrido d’estate.
Eravamo saliti fin sulla Serra Biellese, mentre in macchina Massimo raccontava che il paese che avevamo raggiunto era famoso per le streghe, e rievocava le cronache dell’epoca che riportavano implacabili i processi, e le condanne, e i roghi... insomma luoghi dalla fama un po’ sinistra.
Oltrepassato il paese, la strada diventava sterrata, e dopo un laghetto artificiale avevamo proseguito a piedi. Tra risa e scherzi avevamo attraversato un tratto di bosco, poi eravamo rimasti sorpresi mentre la strada passava attraverso  le rovine di quello che sembrava essere stato un villaggio di discrete dimensioni. Il bosco aveva ripreso possesso del territorio, ma ancora si intravvedevano i ruderi di parecchie case, alcuni muri tuttora in piedi, altri ridotti ad ammassi di pietre, e tracce di strade che avevano percorso l’abitato in varie direzioni. Chissà cosa aveva indotto la gente ad abbandonarlo… 
Lasciato il villaggio fantasma - come lo avevamo battezzato - alle nostre spalle, avevamo camminato ancora un po’, fino ad incontrare un altro rudere, questa volta solitario, che si ergeva alla destra della strada principale. Da lì uno stretto sentiero si addentrava nel folto del bosco.
“Adesso vi faccio vedere una cosa fantastica” aveva esclamato Massimo, tutto eccitato, imboccando il sentiero. Noi l’avevamo seguito, interessatissimi. Il sentiero si snodava tagliando trasversalmente il pendio, in un bosco di particolare bellezza. Poi sbucava su una riva erbosa, e lì il paesaggio si spalancava sulle colline circostanti, e sulla pianura. Pensai fosse quella la meraviglia che Massimo voleva mostrarci. In effetti il panorama valeva la passeggiata. Ma lui non lo degnò di uno sguardo, e proseguì lungo il sentiero, che adesso procedeva allo scoperto sul prato, in direzione di una cascina.
Arrivati nei pressi, fummo spaventati dall’improvvisa apparizione di un grosso cane nero, con feroci occhi gialli, che dal lato del sentiero abbaiava e ringhiava furiosamente nella nostra direzione, mostrando lunghi denti aguzzi. 
“Non consideratelo, evitate anche di guardarlo. Non vi farà nulla” ci rassicurò Massimo.
Poco convinti procedemmo. In effetti il cane non ci aggredì, e dopo un ultimo sordo brontolio, si ritirò, svanendo improvvisamente come era apparso.
Avevamo appena superato la cascina, quando alle nostre spalle si levò una serie di urla furibonde, profferite in una lingua che non capii, forse una specie di dialetto locale, ma particolarmente arcaico e gutturale. Alle nostre spalle, che gesticolava lanciandoci improperi incomprensibili, potei ammirare il più brutto esponente della categoria dei malgari che io avessi mai visto. Trasandato e sporco, la sua faccia esprimeva una furia maligna e quasi folle che ricordavo di aver visto soltanto sul viso di qualche bieco personaggio nella finzione cinematografica.
“Ignoratelo, e seguitemi.” insistette Massimo, imperturbabile. Un po’ scossi facemmo come diceva.
Dopo pochi passi ci apparve la casa. Ciò che colpiva di più era la sensazione di totale estraniamento che dava nei confronti del paesaggio circostante. 
Mi spiego: si trattava di un edificio di tre piani, non molto antico, per lo meno non certo quanto il “villaggio fantasma”. Avrei detto dei primi del Novecento. Per quanto molto trascurato e bisognoso di ristrutturazione, era indiscutibilmente di aspetto signorile. Il tipo di casa che ti aspetti di vedere alla periferia di una città o di un paese, magari circondata da un bel giardino antico, o da un frutteto.
Quella, invece, sorgeva silenziosa e solitaria sul pendio, proprio dove il prato si interrompeva per dare nuovamente spazio al bosco, cupo e ombroso.
Porte e finestre apparivano sprangate, tranne una sul lato destro, che sembrava anche raggiungibile, grazie alla presenza di una tettoia laterale che si appoggiava  alla casa, quasi alla stessa altezza della finestra aperta. Evidentemente già qualcuno aveva trovato il modo di entrare.
Vi era anche un’entrata posteriore, molto curiosa. Essendo la casa costruita sul terrazzamento di un pendio abbastanza ripido, la parte posteriore era quasi addossata ad un muro verticale di contenimento in pietra, che distava dalla casa meno di due metri, e che saliva sino all’altezza del sottotetto. Qui si apriva una porta, che era collegata al sentiero che passava dietro alla casa, sopra al muro di contenimento, da uno stretto ponticello che attraversava lo spazio tra la casa ed il muro stesso. Le stanze di quest’ultimo piano erano dotate di singolari finestrelle esagonali. Il sentiero poi si abbassava gradatamente tagliando il pendio, sino a fare una decisa curva a gomito verso destra, e passare davanti all’entrata anteriore della casa.

Dopo aver fatto il giro completo, ci trovavamo ora proprio alle spalle della casa, sul terrapieno sopra il muro di contenimento, sul quale si appoggiava anche il bordo della tettoia laterale.
“Andiamo, venite!” esclamò Massimo calandosi per il metro di muretto che ci separava dalla tettoia e camminando sopra questa fino alla finestra aperta. Lo seguimmo esitanti, controllando se alle nostre spalle non ci fosse qualcuno, in particolare il malgaro con il suo tremendo cane, a spiarci. Nessuno. 
Entrammo nella penombra della casa, in una delle stanze laterali del primo piano. “Attenti a dove mettete i piedi” disse Massimo “I pavimenti hanno ceduto in certi punti”.
Uscimmo su un ballatoio in cima ad una rampa di scale, che saliva partendo dal piano terreno proprio di fronte alla porta principale. Dal ballatoio su cui ci trovavamo, la scala si divideva in due, per salire nella direzione opposta su due scale laterali più strette. Ad ogni piano, si aprivano lateralmente quattro camere, due sul davanti e due sul dietro della casa. Dal primo piano, le due rampe laterali di scale si appoggiavano ad un altro ballatoio, e da qui la scala tornava ad essere un’unica rampa centrale, sino ai locali del sottotetto. Vi era ancora traccia di un vecchio impianto elettrico, con interruttori di ceramica, e si potevano ancora vedere lavandini e sanitari dove erano stati i servizi, e la cucina al pian terreno. Procedendo con cautela per non rischiare incidenti sui pavimenti sconnessi, la esplorammo completamente, cercando di reprimere una strana inquietudine che a me dava brividi gelati lungo la schiena. Fui il primo a uscire nuovamente alla luce del sole, con mio grande sollievo. Gli altri mi seguirono, commentando entusiasti la stranezza e la misteriosa atmosfera del posto, e congratulandosi con Massimo per l’eccitante scoperta.
Tornammo indietro per lo stesso sentiero, preoccupati all’idea di incrociare di nuovo i poco cordiali abitanti della cascina. Passando non vedemmo nessuno. Ero l’ultimo del gruppo. Quando guardai un’ultima volta alle mie spalle, prima di inoltrarmi di nuovo nel bosco, sobbalzai. Il malgaro e il suo cane erano fermi in mezzo al sentiero. L’uomo teneva le braccia penzoloni lungo i fianchi, come se fossero paralizzate. Il cane, immobile al suo fianco, pareva impagliato tanto era fermo. Ma entrambi mi fissavano con un odio così gelido, o tale mi parve, che me ne sentii trapassare come da una lama ghiacciata. Mi affrettai a seguire gli altri, per cancellare quella sgradevolissima sensazione. 
Per due anni avevo quasi dimenticato quella piccola avventura. Ma mi tornò in mente mentre cercavo di escogitare qualcosa che potesse indurre Lorella a stringersi di nuovo addosso a me, tremante e vulnerabile. Qualcosa che la spaventasse davvero, e non solo per pochi minuti. Ecco: la Casa.
Sufficientemente isolata, ma non così difficile da raggiungere, era l’ideale per aggiungere quel tocco di brivido ad una normale passeggiata del sabato pomeriggio. Un durevole brivido. Contavo di far esplorare a Lorella tutta la casa, e fare in modo che si ritrovasse improvvisamente da sola per qualche minuto in una delle stanze. Magari farle sentire qualche strano rumore, tipo fruscii e scricchiolii. Poi sarei riapparso. L’esito era scontato. I prati lì attorno erano così verdi, soffici, invitanti... L’ombra degli alberi così accogliente e rassicurante...Io sarei stato forte e protettivo, l’avrei calmata, consolata, coccolata, e poi... 
Doveva funzionare per forza.
Successe un sabato di maggio. Avevo preparato tutto. Le avevo preannunciato una passeggiata in campagna. Le avevo detto che avremmo esplorato luoghi nuovi. Contavo di nasconderle che già conoscevo il posto. Le avrei fatto credere che eravamo capitati lì per caso, che avrei visitato la casa per la prima volta con lei. Perfetto.
Nel primo pomeriggio passai a prenderla, e le dissi che avevo pensato di dirigermi verso la Serra. Da lì arrivare al paese che sapevo come per caso, chiacchierando del più e del meno, fu facile. Elementare superare il paese e “scoprire” il laghetto artificiale. Non lasciai la macchina, avevo un po’ di fretta. Proseguimmo adagio lungo le curve della strada sterrata, passando accanto al “villaggio fantasma”. Ci chiedemmo stupiti perchè fosse stato abbandonato. Tutto come da copione.
Parcheggiai accanto al rudere, e mi chiesi ad alta voce “Chissà dove porta quel sentiero?” “Andiamo a vedere” propose lei tutta entusiasta. Naturalmente. Apprezzammo la bellezza del bosco. Lei notò che lì gli alberi erano particolarmente imponenti. Chissà che colori fantastici in autunno. Già, chissà che belli... Il sentiero sboccò sul prato. Il sole splendeva sulle colline intorno e illuminava la sommità di certe bellissime nuvole in lontananza, fitte, spumose e soffici da parere panna montata. Lei sembrò adeguatamente colpita, ed ammirammo il panorama.
La precedetti lungo il sentiero verso la cascina, pronto a raccomandarle di ignorare cane e contadino, ma ebbi la prima sorpresa. 
La cascina era ermeticamente chiusa. Abbandonata come lo era stata la casa due anni prima. Nessuna traccia dell’uomo o del cane. Rovi e ortiche tutto intorno. 
Beh, meglio così. Molto meglio. Non era quello lo spavento che doveva indurre Lorella alla resa, anche se avrebbe indubbiamente aggiunto un certo...”pathos”. D’altra parte, meglio non rischiare di avere intrusi al momento della “conclusione”, no?
Mentre mi avvicinavo alla casa, attesi tranquillo il suo “Oh, guarda!!” quando lei l’avesse vista, che puntualmente arrivò.
“Che  strana costruzione!” mi stupii io, avvicinandomi ancora. 
Seconda sorpresa: la casa non era più chiusa. Oltre alla finestra aperta che già conoscevo, da alcune altre le assi che le avevano sprangate penzolavano schiodate. La porta posteriore, quella che si apriva nel sottotetto oltre il ponticello, era aperta sull’interno in penombra.
Ora veniva il difficile. Lorella sarebbe stata abbastanza incuriosita da superare i suoi timori e proporre lei stessa l’esplorazione? In caso contrario avrei dovuto incoraggiarla con la dovuta dolcezza, senza parere.
Lei si affacciò dubbiosa alla porta, fece un solo passo all’interno allungando il collo, e si fermò. “Non credo sia prudente proseguire” disse. 
Avevo previsto anche questo. 
“Se facciamo attenzione a dove mettiamo i piedi possiamo esplorarne un po’. Questo posto mi incuriosisce. Guarda che strana scala...” e mi avviai scendendo qualche gradino. Lei mi seguì, un po’ esitante. 
“E se arriva qualcuno?” 
“Ma chi vuoi che venga? Dài, facciamo un giretto e usciamo subito.” 
Non ci furono obiezioni. E vai!!
Scelsi una stanza del primo piano per attuare il mio progetto. Le indicai una parete dove qualcuno aveva tracciato delle scritte e degli strani disegni, dicendole che forse lì qualche sballato si era fatto un bel trip. Chissà cosa volevano dire quelle parole incomprensibili? Quando la vidi abbastanza concentrata a cercare di decifrare la scritta, arretrai in silenzio, sperando che le vecchie assi non mi tradissero con qualche scricchiolio inopportuno, e mi eclissai dalla stanza. In punta di piedi attraversai il pianerottolo, e mi nascosi dietro la porta della stanza di fronte, pieno di divertita aspettativa.
Per qualche momento ci fu nella casa una calma completa, un silenzio totale. Il sole doveva essersi eclissato dietro una nuvola, perchè non vedevo più i raggi fendere la polvere tra le imposte sconnesse, e la luce all’interno si era considerevolmente ridotta. Anche all’esterno tutto pareva essersi immobilizzato in un silenzio assoluto. Non un movimento. Non un suono.
Cominciavo a non sentirmi più così divertito. Cosa stava succedendo? Decisi di rinunciare al mio piano,  e uscire dal mio nascondiglio per verificare di persona. Troppo tardi. 
Un urlo lacerante squarciò quella calma innaturale, seguito immediatmente dalla luce violenta e palpitante di un lampo e dal boato fortissimo di un tuono. 
Mi precipitai nella stanza dall’altra parte del pianerottolo per scoprire che Lorella non era più là. Disperato tornai sulle scale, e sentii dei passi affrettati correre al piano di sotto. Sporgendomi oltre il corrimano vidi Lorella uscire rapidissima da una stanza al piano terra per guadagnare l’uscita. Come c’era arrivata? 
Mi precipitai giù per le scale, rischiando di incespicare. La luce era ulteriormente diminuita, tanto che pareva che all’esterno fosse quasi notte. Un altro lampo illuminò chiaramente il portone d’uscita, uno dei battenti socchiuso. Lo spalancai di slancio e mi catapultai all’esterno. O così credetti.

Sentii chiaramente lo schiocco secco di un asse che cedeva sotto il mio piede. Inciampai e caddi pesantemente a terra, stortandomi e ferendomi la caviglia destra. 
Per un momento il dolore lancinante cancellò ogni altra percezione. Ma subito dopo, nella luce crepuscolare che penetrava da una finestrella esagonale, scoprii con incredulo raccapriccio di trovarmi inesplicabilmente ancora all’interno della casa, e precisamente in una delle stanze posteriori dell’ultimo piano. Davanti a me, reale e scheggiato, l’asse sfondato che mi aveva fatto cadere. 
Ma com’era possibile? Come diavolo era possibile? 
Seduto a terra in quella stanza che ormai mi pareva spaventosa, stringendomi la caviglia sanguinante, gridai ripetutamente il nome di Lorella con quanto fiato avevo in gola. Non venne nessuna risposta. 
Tesi l’orecchio, e in lontananza udii, allucinante, il suono di un vecchio carillon inceppato...
 
 

LORELLA

Quando Lorella si trovò davanti a quel muro pieno di simboli e scritte apparentemente incomprensibili, le venne subito in mente un libro che un amico appassionato di satanismo e occultismo le aveva mostrato qualche tempo prima. 
Le sembrava di vedere qualche somiglianza. Naturalmente lei era tutt’altro che un’esperta, ma aveva buona memoria. Le scritte parevano in latino, almeno alcune parole. Cercò di tradurre qualche frase, bisbigliando ciò che andava leggendo, e frugando nelle sue scarse nozioni scolastiche.
Quando una nuvola  coprì il sole, allungando un’ombra inquietante sul muro fino ad un attimo prima violentemente illuminato, si voltò per dire a Davide, che credeva ancora alle sue spalle, che forse era meglio tornare alla macchina prima che iniziasse a piovere.
Ma alle sue spalle Davide non c’era. E la stanza era totalmente diversa da quella in cui credeva di trovarsi. Ancora parzialmente arredata con un tavolo polveroso e due sedie tarlate e cadenti, aveva un caminetto sopra il quale pendeva per traverso un vecchio specchio  parzialmente offuscato dal tempo. Sulla mensola del camino, un antico orologio in legno dal quadrante scrostato fermo alle undici e trenta. 
Alzò la testa e si vide riflessa nello specchio. Gli occhi dilatati dal terrore, ma inesplicabilmente più bella. Incantata si guardò i capelli, trovandoli poco più lunghi di come li portava abitualmente. La pelle candida, perfetta, senza il minimo difetto...
“Sì, sei bellissima...”  una voce bisbigliò vicinissima a lei, e nello specchio vide una mano esile e pallida allungarsi verso di lei dalle tenebre alle sue spalle.
Solo a quel punto un urlo incontrollabile uscì dalla sua gola, e una violenta scarica di adrenalina la spinse  a precipitarsi fuori dalla stanza, mentre un tuono fortissimo rimbombava per tutta la casa. Dopo un istante di confusione, capì di non trovarsi più al primo piano, ma chissà come al piano terreno. Il portone d’uscita a doppio battente era socchiuso alla sua destra. Lo superò in un attimo, per immobilizzarsi immediatamente dopo. 
Di fronte a lei il vecchio tavolo, le due sedie il camino con l’orologio e lo specchio. Era esattamente nella stessa stanza da cui era appena fuggita. In quel momento le lancette dell’orologio ebbero uno scatto, come se quell’oggetto fosse vivo e si fosse risvegliato in quel momento. Dalla cassa tarlata uscì la melodia esitante e stentata di un vecchio carillon, immediatamente coperta dal rombo di un tuono.
Si coprì gli occhi con le mani, emettendo un grido più simile ad un lungo  lamento. Non poteva sopportare l’idea di guardare di nuovo in quello specchio... Si voltò per cercare ancora l’uscita... e si trovò davanti la faccia preoccupata e le braccia spalancate di Davide. Vi si abbandonò con un singhiozzo, mentre lui la stringeva e le bisbigliava piano in un orecchio “Finalmente... finalmente ti ho trovata...”. 
Lui la strinse a sé , e prese a massaggiarle la schiena con entrambe le mani aperte, su e giù, su e giù... Lorella si sentì colmare da un sonnolento languore che improvvisamente inghiottì ed annullò del tutto il panico di qualche secondo prima. Lui continuava a cullarla, a sussurrarle parole rassicuranti, sfiorandole il collo e le orecchie con le labbra, in un modo così tenero e sensuale che lei si sentì quasi cedere le ginocchia. Davide non era mai stato capace di farle perdere il controllo in quel modo, prima. “Non preoccuparti amore mio, non aver paura... è solo un sogno, un brutto sogno...”. 
Lorella alzò lo sguardo sul suo viso. Davide non le era mai parso tanto attraente. I  suoi occhi brillavano con una profondità che lei non aveva mai notato prima, e si sentì ancora una volta sommergere da un’ondata di spossato desiderio. Si appoggiò pesantemente al corpo di lui. E lui ancora la accolse, le accarezzò la fronte e i capelli, abbassò la testa per baciarla. Un bacio lunghissimo, profondo. Le pareva che lui le stesse succhiando tutte le energie, l’anima stessa.
Le sembrava di fluttuare, stava perdendo totalmente il senso dell’orientamento. Barcollò. Lui la spinse contro il muro, continuando ad accarezzarla ovunque, a baciarla, mormorando parole che le giungevano sempre più indistinte ed incomprensibili. Ma ormai non le importava più. Come in lontananza sentiva ancora il brontolio dei tuoni, ma non riusciva ad indursi ad aprire gli occhi, persa in sensazioni mai immaginate in precedenza. Sempre tenendo gli occhi chiusi sentì che ancora lui la spingeva, ma questa volta verso il centro della stanza. E poi sentì di perdere l’equilibrio all’indietro, sostenuta dalle braccia di lui. Attese il contatto con il duro pavimento sotto la schiena, ma un remoto residuo della sua consapevolezza ancora riuscì a stupirsi nel sentirsi accolta dalla morbidezza di un letto. Allungò una mano per tastare la soffice superficie di una coperta di raso, mentre veniva avvolta dal rassicurante profumo di bucato tipico del suo letto, a casa. 
Allora era stato davvero solo un brutto sogno! Era a casa sua, al sicuro con Davide, che le stava facendo tutte quelle cose meravigliose. Cose così diverse dal suo solito sudaticcio, eccitato, frettoloso insistere e frugare... Davvero non era stato mai molto difficile dirgli di no. 
Ora invece lui aveva il controllo assoluto su di lei. E a lei non spiaceva affatto. Il tempo pareva  palpitare e dilatarsi, senza fine... senza fretta, comandato dalla lentissima sapienza delle mani di lui. E lentamente, molto lentamente, lei precipitava giù... più giù... 
Ora sentiva le carezze di lui sul proprio corpo, come se addosso non avesse più traccia di indumenti, ma... quando l’aveva spogliata? E come? Non riusciva a ricordarlo, non riusciva quasi più a pensare... Un greve, piacevolissimo sfinimento l’avvolgeva sempre più. Ora non riusciva nemmeno più a muoversi. Pensò a sè stessa come ad una mosca avvolta nel sudario appiccicoso di un abilissimo ragno, e le venne da ridere. 
Sogghignò scioccamente tra sè, mentre un altro lungo brivido la scuoteva tutta. Cercò di concentrarsi sulle parole che lui continuava a bisbigliarle, e pian piano ricominciò a comprendere qualche parola qua e là...”Amore... mia, mia... secoli... anche tu sarai... qui con noi... eternità.... sei mia, ormai saremo insieme... Insieme per sempre... PER SEMPRE...” 
Davide non avrebbe mai pronunciato le parole “Per sempre”. Mai e poi mai…
PER SEMPRE??? Fu come un pugno nello stomaco. Sollevandosi su un gomito,  aprì di colpo gli occhi spingendo contro il petto di Davide per allontanarlo e guardarlo di nuovo. E in un attimo capì. 
Sentì sotto di sè il pavimento duro e sconnesso, vide la vecchia stanza abbandonata e polverosa, ed in quel momento il carillon riprese a suonare la sua melodia monotona e assurda. 
Davide la fissava con un’espressione che lei non conosceva. Un sorriso sardonico e malvagio, lo sguardo pieno di disprezzo e disappunto per essere stato interrotto proprio un attimo prima di riuscire a carpire ciò che voleva. La sua essenza, la sua mente, la sua anima... 
Poi quell’essere che SEMBRAVA Davide allungò una mano per trattenerla. Una mano sottile, ossuta, bianca come... 
Per la seconda volta Lorella proruppe in un urlo disperato. Con tutte le sue forze spinse via l’essere, e si tirò in piedi. Non era affatto nuda. Era vestita come quando era entrata in quella casa maledetta. Si precipitò verso le scale, aggrappandosi spasmodicamente al corrimano, salendo a perdifiato, nella speranza di trovare la porta superiore aperta. 
Mentre correva , urlava il nome di Davide a squarciagola, ancora e ancora e ancora...
 

DAVIDE

Nella mia vita adulta non ero mai stato vicino al pianto come in quel momento. Seduto lì a terra, senza riuscire ad alzarmi tanto mi doleva la caviglia, stavo per abbandonarmi alla disperazione, quando Lorella apparve sulla soglia. Ansimante, i capelli scarmigliati, gli occhi dilatati da un terrore estremo. Si gettò su di me, inginocchiandosi al mio fianco, abbracciandomi convulsamente tra i singhiozzi.
“Davide, ho paura, c’é... c’è qualcuno qui... qualcosa... Perché mi hai lasciata sola? Non riuscivo a trovarti....”.
Si stringeva a me tutta tremante ed impaurita, proprio come avevo sognato. Ma ora la cosa non mi piaceva affatto. Non era così che doveva andare. Era tutto sbagliato, tutto strano, irreale, confuso... L’unica cosa concreta era la mia caviglia, che continuava a inviare al mio cervello lancinanti segnali di dolore. E forse fu quello che mi salvò, che ci salvò entrambi.
Lorella era strana. Ovvio, era tutto strano in quel momento ma... Lorella lo era di più. Non l’avevo mai vista così bella, così seducente nel suo terrore. Mi baciava e mi accarezzava il viso, guardandomi con occhi febbricitanti, le pupille tanto dilatate da farli sembrare neri, le labbra  tremanti, le guance arrossate. 
Poi mi si strinse ancora addosso, e le sue mani scesero sul mio petto, poi sotto la mia camicia, ad accarezzarmi la pelle nuda. Mi lasciai sfuggire un gemito, e per un istante non sentii più nemmeno il dolore alla caviglia. 
Le sue labbra si posarono alla base della mia gola, e risalirono lentamente fino al mento. Sfiorarono le mie. Aprii lentamente la bocca. E la sua si spalancò sulla mia, vorace. 
Due sensazioni contemporanee mi fecero sobbalzare: un’altra feroce fitta alla caviglia, ed uno sconvolgente, totale, assoluto senso di disgusto. Al punto da causarmi un conato di vomito. La spinsi via da me con violenza, prima ancora di capire io stesso cosa stessi facendo. La guardai. 
Lei AVEVA gli occhi neri. Neri come la bocca dell’inferno, ed altrettanto malvagi. La sua risata stridula mi seguì mentre balzavo in piedi sulla gamba sana, e zoppicando penosamente cercavo di uscire dalla stanza il più velocemente possibile. Dietro di me la sua voce stridente urlava “E’ inutile fuggire, ormai sei nostro! Ci appartieni, sei nostro...” 
Mi trovai di fronte all’uscita posteriore, ma questa volta non mi slanciai all’esterno. Mi affacciai per guardare il sentiero oltre il ponticello, cercando di vedere nonostante il fitto velo di pioggia scrosciante. Un lampo improvviso illuminò chiaramente la scena: davanti a me sul sentiero, il contadino che avevo visto brevemente due anni prima, ed il suo cane, mi fissavano appena al di là dal ponticello. Gli occhi del cane brillavano nel buio come due fiamme, e i suoi denti scoperti in un ringhio silenzioso parevano lame bianche. L’uomo teneva nella mano, pendente lungo il fianco, una lunga roncola sporca di sangue...
Orripilato gli chiusi la porta in faccia, e mi avviai zoppicando verso le scale. Lungo di esse saliva correndo Lorella, urlando disperatamente e ripetutamente il mio nome...
Ci incontrammo sul pianerottolo del primo piano. Ci fu un terribile istante di pausa, mentre ci studiavamo a vicenda con diffidenza. Poi fui sollevato nel notare sul mento di lei il piccolo, rosso foruncolo infiammato di cui si era lamentata al mattino, quando le avevo telefonato. Era lei. Anche lei parve rassicurata da qualcosa nel mio sguardo, perchè in silenzio mi porse la mano.
La strinsi nella mia, e senza abbandonarla, zoppicai lentamente verso la stanza del primo piano da cui ero entrato la prima volta con Massimo. Sembrava deserta. La finestra sulla parete opposta era ancora aperta. Ci avvicinammo circospetti.
Al di là vedemmo la campagna tranquilla, fiocamente illuminata. Non pioveva più, ma l’erba era bagnata ed appiattita dall’acquazzone. Sotto di noi, la vecchia tettoia pareva ancora abbastanza solida.
Guardandomi alle spalle di tanto in tanto, aiutai Lorella a calarsi giù, quindi la seguii. L’atterraggio non fu dei più morbidi. All’impatto con la tettoia il dolore alla caviglia mi trapassò con una violenza che mi abbatté in ginocchio. Aiutato da Lorella riuscii a raggiungere la sommità della pendenza procedendo carponi. 
Prima di cercare di issarmi, lanciai uno sguardo sul sentiero, certo di trovarvi ancora lo spettrale contadino col suo cane infernale. Ma non c’era nessuno. Fu Lorella a salire per prima, e questa volta fu lei ad aiutarmi, issandomi quasi di peso. Restammo per un attimo seduti sul bordo del muretto bagnato, incuranti dell’acqua e del freddo, sfiniti.
Guardai stupito ad est. Tra gli alberi filtravano i primi raggi del sole. Consultai l’orologio. Erano le cinque del mattino. Avevamo passato là dentro tutta la notte! Cos’era accaduto? Non riuscii, non riesco tuttora a spiegarmelo.
Mentre procedevo penosamente lungo il sentiero, appoggiandomi a Lorella, non trovai una sola parola da dirle. Volevo chiederle scusa per averla trascinata in quell’incubo pazzesco, ma non riuscii ad aprire bocca. 
Arrivammo in silenzio alla macchina, e lei si mise al volante. Guidò lentamente, con tutta la prudenza di una neopatentata, sino a casa sua, dove scese, mi salutò, e mi cedette il volante. In qualche modo riuscii ad arrivare a casa mia.
Mi medicai e mi fasciai la caviglia, mi spogliai ed andai a dormire. Dormii un sonno di piombo per quasi tutta la domenica, salvo risvegliarmi urlando verso le sei di sera. Da allora non sono più riuscito ad avere una sola notte di sonno senza incubi.
Per Lorella è lo stesso, come mi ha confidato in seguito.
Non ci sentimmo per tutta la settimana. Fui io a rompere gli indugi e a cercarla la domenica successiva. Mi sentivo terribilmente in colpa.
Decidemmo di vederci in un bar cittadino nel pomeriggio. Io riuscivo ormai a camminare quasi normalmente. Lei sembrava stare abbastanza bene, almeno fisicamente.
Parlammo per un po’ del più e del meno, recalcitranti ad affrontare le domande che aleggiavano inespresse tra noi. Alla fine fu Lorella ad affrontare l’argomento. Ci incontrammo ancora diverse volte, per cercare di analizzare l’accaduto.
Ma mi accorgevo che più ci vedevamo, più la distanza tra di noi aumentava. L’esperienza che avevamo vissuto aveva come contaminato il nostro rapporto. Il nostro sentimento non aveva più nulla di puro, di intatto.
Di tanto in tanto sorprendevo uno sguardo penetrante ed indagatore di Lorella su di me. Mi studiava con attenzione, con diffidenza. Con timore. 
Dopo un po’, capii che faceva di tutto per non rimanere mai da sola con me.
Da parte mia, non avevo nulla da obiettare. Il fatto è che non la desideravo più. Per nulla. Anche il semplice bacio che ci scambiavamo sotto casa quando la riaccompagnavo, riaccendeva in me un senso di leggera ma persistente nausea.
Anch’io presi a guardarla con sospetto. Alla fine decidemmo di non vederci più.
A tutt’oggi, cerco di evitare ogni luogo che so frequentato anche da lei. Onestamente, temo di non riuscire più a sopportarne nemmeno la vista.
La so ormai perduta, infetta. Irrimediabilmente corrotta. Come me. 

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