Gallia Cisalpina, inizi primo secolo D.C.
Il grido di un falco attraversò come una freccia l’aria rosata
e cristallina del primo mattino.
Giamos si riscosse dalla profonda meditazione in cui era immerso da
ore. Alzò lo sguardo per seguire il volo del rapace nel cielo limpido,
e con un sospiro accettò il messaggio che così gli era stato
inviato.
I presagi erano stati foschi, confusi e contraddittori. Parlavano di
morte e di rinascita, di eventi incomprensibili, di personaggi ignoti
e di grandi tragedie. Ma il senso ultimo di tutto ciò restava nell’ombra.
Sostenendosi al tronco della quercia sotto la quale era rimasto seduto
per quasi tutta la notte, l’anziano druido si alzò in piedi, stirando
i muscoli intorpiditi delle gambe. Scosse leggermente il mantello di lana
imperlato di rugiada, mentre un altro lungo sospiro sfuggiva dalle sue
labbra, formando una nuvoletta di vapore che si perse nell’atmosfera fresca
e umida.
Fiutò nell’aria l’odore dei focolari che venivano riattizzati
nel villaggio che si risvegliava, e nonostante lo stato d’animo, il suo
stomaco mandò un eloquente brontolio.
Giamos raccolse il bastone, e appoggiandovisi si avviò in direzione
del villaggio. Il suo corpo aveva urgente bisogno di sonno, nutrimento
e calore: la trance era stata lunga e faticosa, e per un attimo rimpianse
le forze perdute della sua gioventù. Ma poi, scuotendo il capo,
si concesse un sorriso ironico. La Ruota girava senza sosta, e lui era
già stato al culmine, ora toccava a qualcun altro. Il suo turno
sarebbe tornato al prossimo giro, se gli Dei lo avessero ancora voluto
al loro servizio nel mondo.
Assorto in questi pensieri, attraversò il varco della fortificazione
di tronchi che circondava il villaggio, salutando con un cenno i due assonnati
guerrieri che avevano montato la guardia durante la notte. Si diresse con
sicurezza verso la propria capanna, accompagnato dai rispettosi saluti
di quanti lo incontravano.
Appena fuori dall’uscio Prenno, uno dei suoi allievi più giovani,
stava spezzando della legna per il fuoco. Il ragazzo aveva un’aria
imbronciata, notò Giamos con segreto divertimento: probabilmente
Crixa e Dwora, le due allieve più anziane, che avevano anche l’incombenza
di curare le sue necessità domestiche, avevano ancora una volta
fatto valere la loro autorità. Curvandosi il vecchio oltrepassò
la soglia per entrare nella sua abitazione di pietra col tetto in paglia.
Venne accolto dai luminosi sorrisi delle due giovani donne. Crixa aveva
raccolto in un laccio di cuoio i suoi riccioli castani, e stava rimestando
qualcosa nel paiolo sopra il focolare, mentre la bionda Dwora si affrettò
a versare una ciotola di idromele per ristorare l’anziano maestro.
Giamos si lasciò cadere su uno sgabello, e sorseggiò
con piacere la bevanda, conscio dello sguardo indagatore delle due donne,
ma non ancora pronto a discutere con loro quanto aveva visto. Quindi tacque
e le lasciò alla loro curiosità. Erano abituate ai suoi modi,
e sapevano che quando fosse stato pronto, avrebbe parlato.
Intanto Prenno rientrò con le braccia cariche di legna, che
posò nell’angolo accanto al fuoco, in verità senza troppo
garbo, e uscì subito dopo. Crixa gli indirizzò uno sguardo
tagliente, prontamente ricambiato, ma non disse nulla: tutti sapevano quanto
Giamos detestasse i battibecchi futili. Grato per la perspicacia dei suoi
giovani seguaci, l’anziano saggio socchiuse gli occhi, e si godette ancora
per qualche momento i rilassanti suoni domestici, il calore del fuoco,
il sapore dell’idromele che scendeva a riscaldargli lo stomaco. In pochi
minuti gli fu messa in mano una ciotola di bollente zuppa di carne, insieme
ad un fragrante pane di segale appena cotto sulla pietra.
Mentre come sempre Giamos mangiava di buon appetito, iniziò
a chiedere alle ragazze notizie sui riti svoltisi nella notte appena trascorsa.
Quella era stata l’ultima nottata di festa, prima della successiva e più
solenne celebrazione al culmine di Samonios. Poi ci sarebbero stati i festeggiamenti
di chiusura. Per questo motivo si era ritirato in solitudine invocando
come ogni anno il dono della visione.
“Tutto bene, Giamos!” Rispose Crixa con la consueta vivacità.
“Non fosse stato per quel cialtrone di Prenno… L’avevo detto che non si
impegnava abbastanza nello studio della musica! Ha stonato due volte mentre
suonava l’ode principale, e ha rischiato così di interrompere la
trance di Dwora…”
Giamos sapeva bene che era pressoché impossibile riscuotere
Dwora quando questa cadeva nella trance divinatoria. La sua concentrazione
era ormai intensa e perfetta. Senz’altro la considerava la sua migliore
allieva.
Il vecchio druido sollevò un sopracciglio, e si limitò
ad un grugnito, per esprimere la propria incredulità. La verità
era che, essendo Prenno il fratellastro minore di Crixa, questa non era
ancora riuscita a mettere da parte i propri sentimenti di rivalità
nei suoi confronti. Ma i due ragazzi erano in realtà entrambi eccezionalmente
portati per la musica e la poesia, stavano memorizzando perfettamente le
antiche saghe, e contava perciò di farne due eccellenti bardi. Maturando
avrebbero superato anche le loro rivalità giovanili.
Giamos lanciò un’occhiata a Dwora, che gli pareva quieta e silenziosa
più del solito. Si chiese se fosse davvero così, o se quella
sensazione non fosse per caso influenzata dalle visioni che lui stesso
aveva avuto quella notte. Di certo le porte si stavano aprendo, e senza
dubbio, come ogni anno a Samonios, quella notte si sarebbero spalancate,
lasciando libero il flusso del tempo, e consentendo una più chiara
lettura dei presagi.
“Dwora…” la sollecitò delicatamente “Le tue visioni della
scorsa notte, sono state….” Si interruppe, non riuscendo a trovare un aggettivo
adatto. Dwora lo guardò, gli occhi azzurri incupiti da qualcosa
di indefinibile.
“Maestro, sono state… strane.”
Ah, dunque anche lei stava percependo qualcosa di particolare. Ma cosa?
“Il fuoco…” continuò la ragazza, esitante come per uno strano
pudore “Il fuoco non era… ecco… al posto giusto e… mi ha fatto paura. Era…oh,
Dea aiutami! Le fonti bruciavano… Il fuoco sorgeva dall’acqua delle sorgenti.
Non so cosa pensare… E’ un presagio incomprensibile per me. Ma certamente
non è buono” Concluse, cercando di nascondere il tremito della voce.
Giamos abbassò la testa, fissando la ciotola ormai vuota tra
le sue mani. Anche lui aveva visto del fuoco, anche se in un ambito diverso…
Qualcosa di importante e pericoloso si stava avvicinando. Sembrava l’annuncio
di qualcosa che avrebbe cambiato, sovvertito le regole del mondo così
come l’avevano conosciuto sinora… ma cosa, dove, chi?
“Bene, ne parleremo più tardi. E’ stata una notte pesante per
tutti noi, e la prossima lo sarà ancora di più. Concediamoci
qualche ora di riposo” disse alzandosi, ed avviandosi verso il suo giaciglio.
Facendo scorrere il drappo di stoffa che consentiva un minimo di riservatezza
al suo sonno, il vecchio druido si chiese come avrebbe potuto raccontare
con parole chiare la sua visione di quella notte. Ma poi, non appena si
fu disteso sotto la soffice pelliccia che gli faceva da coperta, fu rapidamente
vinto dalla stanchezza, e si assopì.
Crixa e Dwora, che riposavano vicine, si scambiarono ancora qualche
bisbiglio preoccupato, prima di essere anch’esse travolte dal sonno.
Furono svegliati nelle prime ore del pomeriggio, da voci eccitate ed
acclamanti, e da scalpiccii di gente che correva appena fuori dalla porta
della loro abitazione. Giamos si era appena sollevato a sedere, ancora
disorientato, quando Prenno entrò di precipizio nella capanna, con
la consueta goffaggine adolescenziale.
“Crixa, Giamos! Sono tornati, sono tornati! Svegliatevi, venite a vedere!”
“Prenno! Che il cielo ti fulmini! Sei impazzito? Non hai un minimo
di rispetto per il maestro? Lo sai che è stanco! Cosa c’è?”
Lo rimbrottò Crixa.
“Scusate!” Prenno sembrò rendersi conto solo in quel momento
del suo comportamento non proprio ortodosso. Ma la sua eccitazione ebbe
comunque la meglio: “Ma dovete venire fuori a salutarli! Sono tornati i
cugini Taua e Raud! Arrivano da Roma, proprio da Roma!”
Taua e Raud erano i due figli maschi di una sorella della madre di
Crixa e Prenno. Erano possenti guerrieri, e come molti altri erano partiti
per vendere la propria abilità con le armi all’esercito di Roma.
Dopo aspre e lunghe, quanto inutili battaglie per tutelare la propria indipendenza,
da un paio di generazioni ormai le loro terre erano, almeno nominalmente,
sotto la dominazione romana. Nominalmente in quanto, se i centri abitati
più grandi verso la pianura erano obbiettivi appetibili per i Romani,
i piccoli villaggi tra le colline come quello in cui vivevano Giamos e
i suoi non rivestivano particolare interesse, fintanto che non creavano
qualche problema. Da molti anni ormai gli unici contatti che avevano coi
romani ed i loro sudditi si limitavano ad un paio di visite annuali ai
mercati della pianura per scambiare merci, ed all’avvistamento di qualche
rara pattuglia sui sentieri più battuti.
Dopo pochi minuti Giamos, col suo piccolo seguito di allievi stava
raggiungendo la capanna di Dubis, il capo villaggio, davanti alla quale
i due guerrieri stavano salutando amici e parenti.
“E’ bello che voi due siate riusciti a giungere in tempo per la celebrazione
di Samonios!” Esordì il druido.
“Giamos! Ci siamo spezzati la schiena su quei cavalli per giungere
in tempo!” rise Raud, indicando le due cavalcature esauste e coperte si
schiuma.
“E per poco non l’abbiamo spezzata anche a loro!” rincarò Taua.
I due fratelli erano entrambi enormi. Superavano di tutta la testa
la maggior parte dei loro compaesani, ma la somiglianza tra loro finiva
lì. Raud, il più giovane, come suggeriva il suo nome, sfoggiava
una lunga chioma di capelli rosso rame. Gli occhi grigioverdi formavano
un bel contrasto contro la pelle chiara. Il ragazzo somigliava moltissimo
alla famiglia paterna, pensò Giamos. Raud era sempre stato loquace
e irrequieto, gioviale e portato agli scherzi.
Al contrario, il fratello maggiore Taua si era distinto sin da ragazzo
per il suo carattere taciturno e serio. Attirandosi per questo le frecciate
del fratello, aveva sempre dimostrato di avere un’indole particolarmente
rigorosa. Era un uomo che avrebbe mantenuto la parola data a costo della
vita. Prima di partire aveva anch’egli sfoggiato lunghe chiome castane
e ricciolute, cosa che accentuava la sua somiglianza con la cugina Crixa.
Ma, forse per perfezionare la sensazione di timore che il suo fisico già
di per sé suscitava, aveva rasato a zero i suoi capelli, e ora gli
espressivi occhi castani spiccavano più luminosi sotto il cranio
rasato e luccicante.
“Sembrate entrambi in buona salute, cari ragazzi!” continuò
Giamos. La madre dei due stava in mezzo a loro, stringendo le loro mani,
e la felicità nei suoi occhi l’aveva fatta ringiovanire di dieci
anni in un sol momento.
“Certo che stanno bene, i miei ragazzi! E staranno ancora meglio se
riuscirò a portarli a casa, per rifocillarli e farli un po’ riposare
prima della festa di stasera!”
La folla si aprì per lasciarli passare, ma per un attimo gli
occhi di Giamos e di Taua si incontrarono, e il druido percepì nell’espressione
del guerriero un’eco della propria irrequieta preoccupazione. Il ritorno
improvviso dei due giovani era sicuramente una piacevole novità
per il villaggio. Ma lui si chiedeva se qualche altra motivazione, meno
gradevole, non si nascondesse dietro quest’altro avvenimento imprevisto.
“Vieni da me prima del banchetto” Gli disse in fretta mentre gli passava
accanto. Taua annuì in silenzio, per poi seguire sorridendo la propria
madre, che in quel momento lo precedeva col piglio autoritario di un generale
romano.
Rientrato in casa, Giamos sedette sull’unica sedia con schienale presente
nell’abitazione. Era il posto da cui di solito ascoltava chi veniva a chiedere
i suoi saggi consigli.
Crixa, Dwora e Prenno seppero così che era giunta l’ora di parlare.
Si sistemarono a loro volta su degli sgabelli attorno a lui, e si accinsero
all’ascolto.
“Non vi nasconderò di essere preoccupato per le visioni della
scorsa notte” esordì “Anche considerando i presagi che anche Dwora
ha avuto. Forse un motivo è il plenilunio, che quest’anno coinciderà
proprio con Samonios, amplificando ogni vibrazione. Tuttavia non penso
che sia tutto qui... Me lo sento nelle ossa. Qualcosa di molto importante
è già accaduto. Qualcosa che in qualche modo influenzerà
anche la vita del nostro popolo. Ma non mi è chiaro cosa possa essere…
E’ nostro dovere trarre presagi in questa notte. Ma dovremo cercare di
comunicare il messaggio giusto alla nostra gente, senza dare loro notizie
confuse che potrebbero soltanto preoccuparli senza dar loro alcuna certezza.
Vi racconterò cos’ho visto la notte scorsa. Quindi ne parleremo
insieme, e decideremo cosa dire al popolo stanotte”.
Guardò con attenzione il viso dei suoi allievi. Tutti annuirono,
intenti e concentrati.
“Quando la bevanda mistica iniziò a fare il suo effetto sulla
mia mente, fui trasportato nei cieli della nostra terra, e vidi chiaramente
le linee di potere, intatte e luminose, che l’attraversano. Vidi i punti
di forza, integri e attivi, e la pace regnare quasi ovunque. Fui rassicurato
dalla visione, e volli scendere verso i boschi. Ma a quel punto la mia
volontà fu forzata da qualcosa di più potente, e la mia vista
trasportata altrove.
Vidi davanti a me una collina spoglia, illuminata da un sole accecante.
Su di essa, un albero morto, scheletrito. E su questo, nudo e sanguinante,
un uomo crocifisso nel modo usato dai Romani per i malfattori.
Mi avvicinai, per vedere se conoscevo quell’uomo. Fui colpito dal suo
sguardo: era lo sguardo di un grande sapiente, di un saggio. Esprimeva
giustizia e bontà, e il mio cuore fu straziato dal suo supplizio,
avrei voluto liberarlo… ma improvvisamente apparve un soldato romano.
Senza che io potessi fare nulla per impedirlo, costui conficcò una
lancia nel cuore dell’uomo morente, finendolo.
Dalla ferita prese a scendere un filo di sangue, che si trasformò
in uno scroscio, e poi in un fiume. Il fiume di sangue travolse il soldato,
e poi armate e armate di soldati romani, consumandoli come fuoco. Ma compiuta
questa distruzione non si fermò, anzi prese forza e diventando sempre
più ampio ed impetuoso travolse ogni cosa al suo passaggio. Vidi
questo fiume di sangue raggiungere la nostra terra, abbattere le pietre
sacre, e trasformarsi in un fuoco che bruciava gli antichi boschi… Ero
terrorizzato e volevo fuggire. Ma ero bloccato là, e dovetti assistere
a questo scempio… Eppure pensavo agli occhi di quell’uomo, così
buoni e saggi, e sapevo che egli non aveva voluto tutto questo…”
Giamos fece una pausa, osservando gli sguardi spaventati dei giovani.
“Quando riemersi dalla trance, era l’alba, e le mie guance erano bagnate
di lacrime. Avevo pianto durante la visione. Non volevo credere ad un presagio
tanto crudele. Sperai si trattasse di un errore, di un cattivo sogno dovuto
ad una pozione sbagliata. Sperai di essermi semplicemente addormentato
e di avere avuto un incubo. Pregai gli Dei di darmi un altro segno, qualcosa
che mi indicasse se ciò che avevo visto era davvero un presagio
e… e gli Dei mi mandarono il falco.”
“Il falco!” esclamò Dwora “Il viaggiatore tra i mondi,
il portatore delle visioni… Quale conferma più chiara? Quindi non
c’è dubbio…”
“No, non c’è dubbio. E il fatto che tu abbia avuto la visione
delle sacre sorgenti in fiamme completa e conferma una volta di più
questa interpretazione. Ma ora diventa molto difficile darle un significato…”
“Quell’uomo…” interloquì Crixa “Quello morente… hai potuto capire
se era uno della nostra gente?”
“No. Ma non lo credo. La sua pelle era piuttosto scura, e i suoi capelli
neri, come quelli dei soldati romani d’origine orientale. E l’atmosfera
del luogo in cui si trovava mi risultava sconosciuta ed estranea… no, non
era uno di noi. Ma era come… come se volesse diventarlo… Ma queste sono
solo sensazioni. Non sono certo di ciò che ho provato.”
“Sei stato tu ad insegnarci a badare anche alle più sottili
sensazioni, maestro…” obiettò Prenno quasi in un sussurro. E Giamos
non poté dargli torto.
Discussero ancora per un poco, poi iniziarono la preparazione delle
bevande che avrebbero dovuto assumere prima delle celebrazioni, per sgombrare
la mente e renderla più ricettiva ai messaggi che sarebbero giunti
dal Tempo attraverso i varchi.
Mentre i giovani erano impegnati con la preparazione degli infusi,
Giamos cercò ancora qualche momento di solitudine allontanandosi
dal villaggio, per recarsi nel vicino Nemeton, dove fra poche ore si sarebbero
svolti i festeggiamenti.
Fu lì che Taua lo trovò.
Il suo nome significava “silenzioso”, perché sin da piccolo
era stato un bambino particolarmente tranquillo.
“Sapevo che ti avrei trovato qui, maestro”
Giamos lo accolse con un sorriso, e gli fece cenno di accomodarsi su
un sedile di roccia accanto a lui.
“Continuo a rimpiangere il fatto che tu sia cresciuto tanto bene, in
un certo senso” commentò “Se non fossi venuto su così muscoloso,
avremmo forse un guerriero in meno, ma certamente un valido druido in più…
Vedo ancora in te la giusta predisposizione.”
“Non ne sarei così sicuro, venerabile Giamos” obiettò
l’uomo “Non ho abbastanza pazienza, né abbastanza memoria per tutte
le formule, i riti, ed i poemi epici del Clan… sicuramente avrei dimenticato
qualcosa o qualcuno. E qualcun altro si sarebbe offeso a morte. Nella mia
condizione attuale, le offese si riparano in modo più rapido…” concluse
ridendo.
Giamos si unì alla risata, ma presto tornò serio.
“Grazie per essere venuto. Volevo farti qualche domanda su ciò
che tu e tuo fratello avete visto e sentito, viaggiando con i romani. Dimmi,
cosa vi ha spinti a tornare? Si tratta soltanto di nostalgia, o c’è
qualche altro motivo?”
“Vedi, maestro? Ecco perché tu sei un druido, e io no… Hai capito
subito che c’era qualcosa di strano.
Sì, io e Raud siamo partiti da Roma tre mesi fa, perché
stavano accadendo cose sgradevoli, e per noi incomprensibili. Eravamo tornati
da poco dall’ultima campagna militare a sud, e contavamo di restare per
qualche tempo a Roma per spendere un po’ della nostra paga in vino e belle
donne. Ma l’atmosfera in città era… cupa, sospettosa. Spaventosa,
direi, se non temessi per passare per il codardo che non sono.”
Taua si guardò intorno, dalla cima degli alberi dolcemente scossa
dal vento d’autunno, ai massi piantati nel suolo all’alba dei tempi da
mani sconosciute a formare il Nemeton dove generazioni di avi del suo clan
si erano incontrati per prendere decisioni, discutere, pregare, cantare,
celebrare insieme le ricorrenze e le stagioni.
Poi il suo sguardo tornò al vecchio druido.
“Giamos, tu sai già che lo spirito dei romani è in decadenza,
sai che non credono più in nulla, nemmeno ai loro dei. Così
gli dei li hanno abbandonati. Il popolo, lasciato a sé stesso, si
è rivolto a culti esterni, portati dagli schiavi, dai prigionieri,
o dai mercanti appartenenti ai popoli conquistati da Roma.
Per parecchio tempo hanno avuto molto seguito le divinità egiziane.
Sono sorti diversi templi in onore di Iside, Osiride… Ma dalla Palestina
ora è giunto un gruppo di seguaci di una nuova religione. Essi narrano
la vita, le opere e diffondono gli insegnamenti del loro maestro, Jesus,
che pare sia stato crocifisso dai romani stessi, nella sua terra,
qualche anno fa.”
L’espressione di Giamos si fece pensosa “Hesus, il dio degli alberi
che si sacrifica…”
“No. All’inizio l’ho creduto anch’io, ma poi ho capito che non si tratta
del dio della nostra tradizione.
Questo Jesus sembrava combattere la dominazione romana, ma in realtà
non usava armi. Anzi… predicava la bontà, ma i suoi insegnamenti
andavano ben oltre: i suoi seguaci raccomandano la povertà, l’umiltà,
la mansuetudine, e la rassegnazione. Dicono che l’uomo non è padrone
della propria vita, ma che questa è nelle mani del loro dio, di
cui Jesus si proclamava figlio. Essi pensano che questa vita sia una valle
di lacrime dove più l’uomo soffre e patisce fame e tormenti, più
sarà premiato dopo la morte in un luogo di gioia che loro chiamano
Paradiso. Pensa che hanno addirittura adottato la croce, l’odiato strumento
di supplizio, come loro simbolo! Inoltre credono che l’uomo sia indotto
a peccare da uno spirito malvagio che chiamano Satan, che per loro è
l’ispiratore di tutti i mali del mondo.
Questa dottrina sta facendo molti proseliti, anche tra gli stessi romani,
ma soprattutto fra gli schiavi di origine straniera e tra i più
poveri e diseredati, perché dà loro una speranza di riscatto,
ed è mal tollerata dalla classe dirigente”
“Perché mai, se questa religione predica solo la mansuetudine
e la rassegnazione?” domandò Giamos incuriosito.
“Perché questi sono princìpi totalmente contrari alla
mentalità romana. I generali temono che produrrà soldati
codardi e smidollati, e per i politici sarebbe un incubo non poter più
tenere a bada il popolo con promesse di agi e denaro, se questa dottrina
di povertà dovesse prendere piede…”
“E allora? Come pensano di opporsi a questo culto?”
“Dovresti saperlo. Allo stesso modo con cui hanno abbattuto il sacro
culto dei nostri avi nei luoghi ove questo dava loro fastidio o sosteneva
la rivolta: uccidendo i sacerdoti, imprigionando e torturando i seguaci.
Sono già cominciate le persecuzioni. E siccome molti tra i soldati
della nostra guarnigione avevano aderito alla nuova dottrina, io e Raud
abbiamo temuto che ci potessero confondere con loro ed imprigionare a nostra
volta. Abbiamo preferito ritirare la nostra paga, e sparire per un po’.
Contiamo di fermarci qui tutto l’inverno, ed in primavera ripartire per
vedere se nel frattempo le acque si sono calmate. Oppure tentare la fortuna
in qualche guarnigione stanziata qui in Gallia Cisalpina.”
Giamos rimase ancora qualche momento in silenzio, pensoso. A sua volta
girò lo sguardo attorno a sé, a contemplare la sua amata
terra, ed i sacri simboli della spiritualità del suo popolo.
“Il potere del sangue… il potere del dolore… sì, può
essere. Questi princìpi sono per noi estranei. Noi sappiamo che
il destino d’ogni uomo sta nelle sue mani. Sappiamo che ogni azione può
essere buona o malvagia a seconda dell’intenzione di chi la compie, e che
non esiste un essere esterno che possa essere preso a giustificazione un’azione
cattiva. Ognuno è responsabile delle sue scelte, giuste o sbagliate
che siano, e queste scelte saranno premiate o punite dalla Ruota della
vita… Tuttavia… sì, comprendo che una tale religione possa fare
breccia nei cuori di genti oppresse, deboli, disperate. Sì… ecco
il pericolo. Ecco il senso del presagio.” Si alzò in piedi.
“Ti ringrazio, Taua. Il tuo racconto ha chiarito molte cose. Ascolterai
le divinazioni con tutti gli altri, alla celebrazione di stasera” e con
queste parole si congedò, lasciando Taua ai suoi pensieri.
Quella sera i festeggiamenti si avviarono come ogni anno al calare
del sole. Fu approntato un ricco banchetto nella grande capanna comune
che fungeva da luogo di riunione per tutto il villaggio.
I bardi più esperti cantarono e declamarono le saghe degli eroi,
e narrarono storie di amori, avventure e di terrore. Poi tutti si unirono
nella lunga processione illuminata dalle torce, per poi disporsi in circolo
all’interno del Nemeton, al cui centro era stata preparata una grande catasta
di legna.
Solo a quel punto giunsero Giamos, affiancato da Crixa e Dwora, e seguito
da Prenno con un’altra mezza dozzina di giovani allievi del vecchio druido.
La bianca luce della luna piena formava come un sentiero sulla radura,
e illuminava il piccolo corteo, dandogli una parvenza quasi irreale.
Il druido ed il suo seguito avevano digiunato, e trascorso le ore precedenti
in meditazione, dopo aver bevuto gli infusi preparati con erbe, radici
e funghi essiccati che avrebbero loro permesso di vedere oltre le porte
spalancate del tempo.
In particolare Giamos e Dwora, la giovane ma dotata veggente, sarebbero
stati al centro della celebrazione da quel momento in poi.
Bodu, il più esperto tra i bardi del clan, si affiancò
a Giamos ed iniziò a suonare una sommessa melodia, mentre il druido
iniziava a parlare:
“Foschi sono i presagi che gli Dei mi stanno inviando questo Samonios.
Il Popolo sta per affrontare un pericolo, al confronto del quale la conquista
dei Romani è stato un evento trascurabile. I romani hanno potuto
mettere in pericolo soltanto la nostra vita terrena, e voi sapete che la
vita è solo il varcare di una soglia. Ciò che si sta avvicinando
rappresenta un pericolo per l’anima stessa di tutto il Popolo. Non di un
solo clan, o di un solo territorio.
E’ nato un uomo, in una terra molto lontana da qui, che ha riunito
attorno a sé una schiera di seguaci. Costui è stato ucciso
per questo dai romani, e ora la sua gente è perseguitata. Ma colui
che ora è debole e perseguitato farà della propria debolezza
la sua forza, e diverrà a sua volta forte e persecutore. Perciò
vi dico: giungeranno anche da noi messaggeri di una nuova religione, e
predicheranno la rassegnazione. Esalteranno il valore della sofferenza,
e l’inutilità della volontà umana. Prenderanno in odio i
nostri Dei, ci diranno che siamo in errore. E avranno allora imparato dai
romani come si piega la volontà di un popolo: saremo allora noi,
ad essere perseguitati…” La sua voce si era via via alzata, e terminò
la frase quasi in un grido angosciato.
Immediatamente gli fece eco la voce di Dwora: “Ecco giunto il culmine
della notte! Ecco che si aprono le porte del tempo… ecco che giungono gli
avi, e attraversano il varco per vedere il frutto dei loro lombi… accendiamo
il fuoco per loro!”
Una nebbia fitta si stava raccogliendo attorno al cerchio di pietre.
Fu consegnata a Giamos una torcia, con cui questi accese il fuoco che subito
ruggì potente, illuminando e riscaldando quanti stavano lì
raccolti.
Negli spazi tra le alte pietre erette, la nebbia prese a vorticare,
prendendo la forma di una diafana processione di uomini e donne, che camminò
tre volte intorno al Nemeton, e poi si dissolse nel buio. Questo vide il
clan.
Ma Giamos e Dwora, la vista interiore allenata da anni di esercizio,
ed acuita dalle pozioni, scorsero distintamente nella bianca luce lunare
i volti di chi li aveva preceduti su quella terra. Li videro piangere,
e li ascoltarono sussurrare frasi allarmate e tristi. Poi li videro mescolarsi
alla folla dei loro discendenti, accarezzandoli con mani invisibili.
Nuovamente si alzò la voce di Giamos: “Ecco che giungono i figli,
coloro che saranno vengono ora per vedere chi li generò…”
I figli futuri parvero voler dimostrare la loro presenza soltanto con
piccole scintille luminose sul confine tra la radura e il bosco, quasi
esitassero a mostrarsi.
Ma fu Crixa, che mai prima d’allora aveva avuto una visione, ad alzarsi
in piedi, indicare un punto al di là delle pietre, pronunciando
una sola angosciata frase: “Dea, proteggi le nostre figlie…”
Sul limitare dell’oscurità, sul confine del tempo, davanti ai
suoi occhi un fuoco spettrale pareva essersi acceso. Avvinta ad un palo
eretto su di esso, in preda ai tormenti, si contorceva una giovane donna. |