“La Papessa e la Maìn
In un cantone di Bioglio, in Ca’ d’Ordzui, si diceva che la montagna
della Rovella ospitasse le forze del male e fosse quindi un covo di streghe
comandate da una sorta di Papessa. Si racconta che la masca (cioè
la strega) se ne andasse in giro accompagnata da un feroce cane nero chiamato
Moro. La notte dell’Epifania era ritenuta la più propizia per i
diavoli e le streghe, così in quel giorno, al crepuscolo i paesani
dovevano rinchiudersi in casa per non essere vittime di qualche maleficio.
Maìn (un diminutivo per Maria) era una donna famosa a Bioglio per
la sua furbizia e la sera dell’Epifania non aveva alcuna voglia di andare
a letto prima del tempo. Gli altri famigliari la ammonirono e poi, sapendola
ostinata, le voltarono le spalle lasciandola a vegliare da sola. A un tratto,
quando era ormai notte fonda, la donna sentì un ululato, e
poi un altro, e un altro ancora. Era chiaro che il cane della Papessa stava
scendendo dalla Rovella verso Ca’ d’Ordzui e verso l’unica finestra illuminata.
Infatti di lì a poco sentì la Papessa chiederle “Cosa fai
Main?” La donna, che voltava le spalle alla finestra, non rispose, e così
la strega continuò: “Se ti giri per un solo momento ti darò
la buonanotte”. Maìn si voltò, e puntando un dito contro
la Papessa disse: “La buonanotte a me e la malanotte a te”. Fu così,
che pronunciando questa semplice formula, che la strega scomparve con il
suo seguito per sempre, liberando il paese dal terrore.”
Tratto da “Guida al Biellese misterioso e sconosciuto” di Marco Conti.
So cosa raccontano di me. Ora che gli anni sono passati, ed io sono
quasi centenaria, la mia è una leggenda.
Oggi io sono una personalità, onorata e rispettata in
paese: dicono che io abbia scacciato le streghe.
Ingenui. Se solo sapessero!
Ma il mio segreto è al sicuro, visto che ormai sono l’unica
a conoscerlo, e me lo porterò nella tomba: voglio trascorrere in
pace i miei ultimi anni, servita e riverita da tutti, compreso il parroco.
Un’ultima volta mi concedo di rievocare il passato, di riviverlo narrandolo
stanotte a me stessa e stelle…
Sono sempre stata curiosa, sempre. Sin da bambina, quando per gioco
cercavo i tesori delle fate nei boschi dietro casa.
Lo rimasi anche più avanti, quando crebbi e la luna iniziò
a strappare ogni mese dal mio ventre rosse ondate di dolore. E mia madre
diceva che ormai ero una donna fatta, che avrei dovuto pensare a trovarmi
un buon marito, e smettere di seguire i capricci della mia fantasia.
Ma in fondo sapevo che i miei genitori e i miei fratelli, pur giudicandomi
un po’ stramba, mi amavano e rispettavano la mia testa matta: in fondo
chi aveva sempre le idee migliori in famiglia, se non io?
Così ignoravo i pretendenti, e salivo ogni giorno verso la montagna
con le quattro capre che erano la maggiore ricchezza della famiglia, e
mentre loro pascolavano, io contemplavo il cielo e disegnavo esseri fantastici
con le nuvole, o mi raccontavo fiabe e leggende che io stessa inventavo.
Una fresca e limpida mattina di fine estate, mi ero fermata a bere
ad una fontana lungo il sentiero. Sentii in lontananza l’ululato di un
cane. O di un lupo?
Mi spaventai un po’. Sapevo che difficilmente i lupi cacciano in pieno
giorno e vicino ai sentieri, ma chi mai può sapere cosa arriva a
fare un predatore spinto dalla fame?
Così mi voltai, il mio bastone in mano, pronta a tutto per difendere
le mie bestie. Ma, ancora distante, saliva dal sentiero una persona accompagnata
da un grosso cane nero. Quando fu più vicina, vidi che si trattava
di una donna, che procedeva appoggiandosi ad un lungo bastone ricurvo e
scolpito. Un’ingombrante bisaccia le pendeva da una spalla.
Era vestita con abiti dalla foggia un po’ strana. Non erano nuovi,
ma sicuramente di una stoffa molto più bella e fine della mia semplice
gonna di lana ruvida e della mia camicetta di lino grezzo.
Al contrario, gli abiti della sconosciuta erano colorati di vari toni
di marrone e rosso cupo, mentre attorno alla testa aveva avvolto un velo
color del rame con ricami rosso scuro. Era una donna imponente, scura di
carnagione, dagli occhi neri e profondi. I suoi capelli bruni mostravano
le prime striature di grigio.
Quando fu giunta in vetta al pendio, e mi fu vicina, vidi che era più
alta di me di almeno tutta la testa. La sua espressione era benevola, ma
altera. Mi faceva sentire intimidita ed imbarazzata, e questo non mi era
mai capitato con nessuno, in vita mia.
Tuttavia la sua voce era molto dolce, e con uno strano accento, quando
mi chiese di poter bere alla fontana, quasi come se la fontana mi appartenesse.
Non riuscii a trovare le parole per risponderle, così in silenzio
risciacquai la mia tazza di latta, e gliela porsi piena d’acqua. Lei si
dissetò, mentre il suo cane, che mi parve massiccio, peloso e grande
quasi come un orso, si serviva da sé alla sorgente.
Restituendomi la tazza, la sconosciuta mi fissò a lungo negli
occhi. Sembrava che leggesse dentro di me, e io non sapevo distogliere
il mio sguardo. Quando le nostre mani si toccarono casualmente mentre riprendevo
il contenitore, il contatto mi diede un lungo brivido.
Finalmente l’ispezione finì, e la signora sorrise ancora, di
un sorriso dolcissimo, come se ciò che aveva visto le fosse piaciuto.
“Qual è il tuo nome, ragazza?”
“Maria. Ma tutti mi chiamano Maìn. E’ perché sono piccola
e magra.”
“E dimmi, Maìn, sai se c’è qualche buon riparo sulla
montagna? Il mio Moro, qui, non ama la compagnia della gente. E nemmeno
io. Ma questi luoghi mi piacciono, e mi sembrano tranquilli. Vorrei fermarmi
per un poco.”
Mi sembrò strana la sua richiesta. Ma in quella signora tutto
era strano. Pensai un attimo, e poi mi venne in mente quella parete di
roccia, su per la Rovella, dove c’era una specie di piccola rientranza,
quasi una grotta poco profonda. Mi ero riparata là da un temporale
una volta che ero salita ai pascoli più alti, dove però i
pastori si avventuravano raramente.
Sicuramente quel posto isolato sarebbe piaciuto alla signora, se non
amava vedere gente. E poi c’era anche un ruscello lì vicino, e un
grande prato davanti. Così glielo dissi, e le spiegai come
arrivarci. Ancora una volta venni ringraziata, poi lei si avviò
su per il sentiero, sempre seguita dal suo nero compagno, in direzione
della Rovella.
Io rimasi lì, piena di curiosità e tormentata dalle domande
che non avevo osato porre.
Quando tornai a casa, quella sera, non parlai a nessuno del mio incontro.
Ero gelosa del mio segreto, e qualcosa in fondo a me mi imponeva di tacere.
Ma la curiosità bruciava dentro me come brace in un camino.
Non seppi resistere a lungo. Pochi giorni dopo partii prima del solito
al mattino, con le mie capre e un involto sotto il braccio. Volevo salire
sino ai pascoli alti, mi dicevo. Soltanto per cambiare foraggio alle bestie.
Ma sapevo che la verità era un’altra.
Camminai lentamente, aspettando le bestie ogni volta che si attardavano
a brucare. Quasi a mezzogiorno giungevo alla Rovella, e mi avvicinavo alla
parete di roccia. Subito notai dei cambiamenti. La rientranza che ricordavo
non era più visibile, perché davanti era stata costruita
una semplice struttura in legno e paglia, una specie di capanna addossata
alla roccia, e intorno a questa un basso steccato. Un filo di fumo saliva
da un focolare acceso davanti alla capanna. Man mano che mi avvicinavo
iniziai a sentire, portato dal vento, un invitante profumino.
Quando giunsi di fronte allo steccato, la signora stava versando il
contenuto di un piccolo paiolo di rame in due ciotole di legno. Il grande
cane nero era disteso lì accanto e mi guardava tranquillo, la rosea
lingua pendula dalle enormi fauci.
“Ti aspettavo, Maìn. Benvenuta. Ecco la tua zuppa.” Una ciotola
di fumante, profumata zuppa d’erbe mi fu messa in mano, insieme ad un cucchiaio
di legno. Stupita, guardai la signora, mentre mi sedevo sul masso piatto
che mi veniva indicato come sedile.
“Come sapevate che ero io, e che sarei venuta oggi?”
La signora rise brevemente: “Magia…” disse, e io mi ritrassi spaventata.
La magia era opera del demonio. Dunque ero nell’antro di una strega!
La signora tornò seria “No, nessuna magia. Preparo sempre zuppa
in abbondanza, per averne anche per la sera. E in quanto a sapere che eri
tu… me l’ha detto il Moro. O meglio non ha detto nulla. Lui si ricorda
di te, perciò non ha abbaiato. Fosse stato qualcun altro, si sarebbe
allarmato. Tutto qui. Niente magia” disse allargando le mani davanti a
me, come per mostrarmi che non nascondeva nulla.
Ero ancora spaventata, ma sorrisi per non mostrare il mio timore, e
sorbii la zuppa, dopo essermi assicurata che anche la signora prendeva
la sua senza esitazioni.
Finita la minestra, estrassi dall’involto la piccola forma di formaggio
che avevo portato in dono, e ne consumammo un pezzetto a testa. Moro si
mangiò la crosta, e scodinzolò contento. Iniziavo a sentirmi
più a mio agio.
Ogni tanto i miei occhi correvano al prato lì davanti, per assicurarmi
che le mie capre brucassero tranquille. Poi la signora si allontanò,
e mi fece cenno di seguirla e di sedermi accanto a lei sull’erba all’ombra
delle rocce.
Le colline si stendevano tranquille davanti a noi, e facendo scorrere
lo sguardo sui rilievi più lontani, la signora cominciò a
parlare a voce bassa:
“La tua compagnia mi è preziosa, piccola Maria. Sei la prima
persona con cui parlo da molte settimane. Voglio raccontarti la verità,
poi tu deciderai se vuoi continuare a venire a trovarmi. Non voglio arrecarti
alcun male, Maìn.
Il mio nome è Alesia, e vengo dalla Liguria, un luogo
ove sono insieme mare e alti monti. Il mio paese è Triora, e sono
di nobile famiglia.
Ho viaggiato a lungo, in molti paesi. Ho percorso la Francia, e il
paese degli Alemanni. Ho attraversato il mare per raggiungere l’isola di
Albione, e ho molto veduto, molto studiato.
Poi la sventura si è abbattuta sulla mia terra, che per secoli
era stata un luogo felice e prospero. Negli ultimi due anni, purtroppo,
una grave siccità ha inaridito i campi del mio paese, e recato malattie
alle greggi.
Gli anziani del paese, aizzati da alcuni monaci di passaggio, hanno
dato la colpa alle streghe, poiché ora ogni disgrazia pare provenire
dai malefici del demonio portati sulla terra da donne malvagie. Così
un inquisitore e i suoi serventi sono arrivati a Triora. Hanno imprigionato
e torturato molte donne, senza curarsi della loro età o del loro
rango. Bambine e anziane, popolane e nobili dame sono state sottoposte
ai tormenti per costringerle a confessare riti blasfemi e malefici.
Avvertita dalla mia famiglia, sono tornata al paese per scoprire che
le mie parenti, le mie amiche, molte delle donne che conoscevo erano morte,
o portate in prigionia a Genova. Qualcuno informò l’inquisitore
del mio ritorno, e furono mandate le guardie per trarre prigioniera anche
me. Solo grazie ad un inganno e alla fortuna sono riuscita a fuggire e
mettermi in salvo. Da allora vago fuggiasca, alla ricerca di un luogo dove
potermi nascondere, almeno per un po’, in pace.”
Le prediche e gli ammonimenti del curato frullavano nella mia mente
come neri uccelli impazziti: “Guardatevi dal demonio e dai suoi accoliti,
guardatevi dai servi del maligno che vi possono ghermire e trascinare con
loro nel profondo dell’inferno…”
“Ma… era vero?” Riuscii a sillabare, impedendomi a stento di balzare
in piedi e di fuggire a rotta di collo giù per il pendio: “Era tutto
vero? Erano streghe? Siete una strega anche voi, signora ?”
Alesia volse lentamente la testa verso di me, e il suo sguardo scavò
profondamente dentro il mio. Nei suoi occhi vidi soltanto dolore, e sincerità.
“No, non era vero. Non nel senso che intendono i preti, almeno. Vedi,
da tempo immemorabile le donne della mia terra si tramandano di madre in
figlia ricette e nozioni molto antiche. Non sono malefici, ma anzi cure
per i dolori del corpo e dello spirito.
Ma i preti sono gelosi di questa sapienza. Vorrebbero essere gli unici
depositari di tutto il sapere, per togliere alle persone ogni altra speranza
che non sia la loro religione, per avere più potere sul popolo.
E soprattutto vogliono sottomettere ed umiliare donne, perché
ci odiano e temono il potere che ogni donna possiede. Vogliono farci credere
che si tratta di una cosa sbagliata, sporca e peccaminosa. Vogliono ricacciare
nell’oblio la saggezza e il sapere delle donne, che sia dimenticato per
sempre, poiché ci vogliono ridurre in servitù a un dio che
ama solo gli uomini, e disprezza le donne.
Noi non facevamo alcun male. Curavamo la gente ed onoravamo la fertile
terra. Ma se questo vuol dire essere streghe, ebbene sì: eravamo
streghe. Io sono una strega. Ora dimmi, Maìn: hai paura di me?”
Dai miei occhi scendevano lacrime di commozione. Non potevo credere
che ci fosse alcunché di maligno in quella nobile signora. No.
E anch’io avevo sentito bisbigliare le donne, quando erano in casa
al sicuro da orecchie estranee, sul fatto che una volta le anziane sapienti
potevano curare certe malattie, ma che adesso era pericoloso, il prete
non voleva…
“No, signora. Non ho paura. E vi aiuterò, se posso.”
“Grazie Maìn. Ma non raccontare a nessuno di me. Nemmeno ai
tuoi. Non dire che mi conosci. Potrebbe essere pericoloso per te. Non ci
vuol nulla per finire in qualche segreta con gli spilloni arroventati piantati
in corpo. Credimi.”
Promisi. Ma da allora, almeno una volta alla settimana, salivo fino
ai pascoli alti, per incontrare Alesia, e farmi raccontare dei suoi viaggi,
di tutte le persone importanti, sapienti, o soltanto strane che aveva incontrato
nel suo vagabondare per l’Europa. E poi mi raccontava di città lontane,
di palazzi e vie e strade, di mari, fiumi e monti che mai avrei visto nella
mia vita.
Della magia non parlava volentieri, e non voleva insegnarmi nulla.
Diceva che non avrebbe potuto insegnarmi nozioni sufficienti per essermi
davvero utili nella vita, ma solo trucchetti di poco valore, che avrebbero
per di più potuto mettermi nei pasticci se qualcuno mi avesse sorpresa
a praticarli. Ma a me andava bene così, e non insistetti. In fondo
ero una ragazza semplice, non ero e non sarei mai stata una sapiente.
Ma l’autunno avanzava: presto non avrei più avuto alcun pretesto
per salire alla Rovella. Era ottobre, e già l’aria era gelida lassù,
l’erba ingiallita e stenta. Tornai un’ultima volta, per salutare la mia
amica e chiederle cosa avrebbe fatto lassù da sola.
La trovai intenta a riempire la bisaccia con i suoi pochi averi. Stava
partendo.
“Dove vai, Alesia?”
Lei guardò il cielo grigio e sospirò: “Sta per nevicare.
Devo ridiscendere in pianura, e sarà pericoloso. Ma se le cose andranno
bene, tornerò in primavera, e non sarò più sola.”
Scendemmo insieme, sempre seguite da Moro, che ormai pareva affezionato
a me quanto alla sua padrona.
Ci separammo appena sopra il paese, alla biforcazione con un sentiero
che tagliava fuori le case. Alesia mi abbracciò a lungo, e dopo
un ultimo “Arrivederci” la guardai scendere rapidamente, presto nascosta
dai primi sbuffi di nebbia.
Quell’inverno passò lentamente per me. Ero triste, nervosa,
preoccupata per la mia amica. Naturalmente non potevo spiegare nulla, e
così la mia fama di stranezza crebbe e peggiorò in paese.
Venne la primavera, anche l’ultima neve sulle alture si sciolse cantando
in mille rivoletti giù per i pendii. Alla fine di aprile giudicai
di avere atteso a sufficienza, e salii verso le rocce.
Ciò che vidi mi precipitò in una cupa disperazione. La
capanna era deserta, il tetto semisfondato dalla neve, nel piccolo focolare
già cresceva l’erba.
“L’hanno presa” pensai “L’hanno presa e imprigionata. L’hanno torturata
e uccisa, e io non la vedrò più”
Mi accasciai sull’erba, nello stesso posto dove tante volte mi ero
seduta accanto ad Alesia, per ascoltare i suoi racconti sognando di paesi
lontani. Forse mi appisolai.
Fu un lungo ululato a riscuotermi.
“Moro, Moro!!” Gridai alzandomi. Il grosso cane correva festoso verso
di me, col lungo pelo nero che danzava luccicando nel vento. E dietro di
lui veniva Alesia, accompagnata da altre tre persone. Due ragazze bionde,
circa della mia età, mi parve, e un uomo anziano, che zoppicava
vistosamente. Tutti erano magri ed avevano un’aria affaticata.
Dopo aver abbracciato Alesia, offrii loro il latte delle mie caprette,
che venne accettato con entusiasmo. Seppi che le giovani si chiamavano
Matilde e Benedetta, e l’uomo Biagio. Purtroppo non potei fermarmi
a parlare con loro: era tardi e dovevo tornare.
Mia madre, quella sera, si stupì per la scarsità della
mungitura, e mi sgridò, dicendo che facevo camminare troppo le bestie,
che poi, troppo stanche, non davano più latte. Annuii, e mi allontanai
in silenzio.
Ma il giorno dopo ero di nuovo alla Rovella. Ero troppo curiosa di
sapere chi fossero le persone che Alesia aveva portato con sé, e
quale fosse la loro storia.
Mentre mi avvicinavo lungo il pendio erboso, mi rallegrò il
cuore vedere il fumo che saliva placido dal piccolo focolare accanto alle
rocce. Arrivai in vista della capanna, a cui Alesia e gli altri stavano
già lavorando per riparare il tetto.
“Per oggi va bene così” disse la signora. “Da domani vedremo
di sistemarci meglio” aggiunse guardandosi attorno con uno sguardo vivace
e le mani sui fianchi. Non l’avevo mai vista così vitale e serena,
e ne fui felice.
A pranzo condividemmo la mia pagnotta di pane nero, e la zuppa d’erbe
che avevo imparato ad apprezzare. Seppi che Matilde e Benedetta erano sorelle.
Erano state le più giovani discepole di Erminia, la stessa donna
che aveva tramandato le antiche conoscenze ad Alesia. Erano tra le poche
ad essersi salvate dalla strage perpetrata al loro paese.
Matilde era stata denunciata per vendetta insieme alla sorella minore
da un corteggiatore respinto. Erano fuggite ed erano state ospitate per
qualche mese presso dei parenti, che però si sentivano in pericolo
e non vedevano l’ora di disfarsi di quelle ospiti scomode.
Biagio invece aveva servito come stalliere nella casa natale di Alesia.
Era stato arrestato ed interrogato insieme al resto della servitù,
poi era riuscito ad evadere dalle prigioni degli inquisitori. Ma recava
a ricordo i piedi storpiati dalle torture.
Chi e dove fossero i parenti delle due sorelle, e grazie a quali contatti
Alesia fosse riuscita quell’inverno a ritrovare loro due e Biagio non mi
fu spiegato. E io reputai prudente non domandarlo.
La primavera lasciò il posto all’estate, e la piccola comunità
non restò con le mani in mano. A giugno la piccola capanna di paglia
era stata sostituita da una robusta struttura in pietra e legno addossata
alla parete rocciosa, e costruita in a chi arrivava modo da essere poco
visibile dal sentiero.
Io continuavo a salire da loro almeno una volta la settimana. A quel
punto anche i miei pretendenti più ostinati erano spariti, e mia
madre sentenziò che sarei diventata una brutta vecchia zitella.
Ma a me non importava. Anzi, pensando alla sorte di Matilde mi sentii fortunata.
Una mattina arrivai e trovai Biagio tutto intento a spazzolare con
cura una bella mucca.
“La montagna è generosa con chi la rispetta” fu l’unica risposta
di Alesia alla mia domanda sulla provenienza dell’animale. E da allora
ebbero latte e formaggio in abbondanza.
Forse fu per colpa della mucca, o forse fu la fatalità che tramava
maligna, ma alla fine dell’estate la loro presenza cessò di essere
un segreto. Qualcuno che cercava quel capo di bestiame mancante, o forse
dei pastori curiosi, notarono il fumo del loro focolare. Videro le donne
rimestare nel paiolo, e per loro poteva significare una sola cosa: stregheria.
I montanari presero ad inventarsi storie paurose su quel piccolo gruppo
di fuggiaschi.
Avvisai Alesia e gli altri di quanto stava accadendo, ed a loro volta
ne furono spaventati. Avevano sperato di poter restare indisturbati per
più tempo nella nostra bella terra.
Alesia mi raccomandò mille volte ancora di non dire a nessuno
che li conoscevo. Mi esortò a guardarmi sempre le spalle quando
andavo da loro. Ne andava della mia vita. L’avevo capito, e stavo attenta,
ma non volevo abbandonare coloro che ormai consideravo buoni amici sventurati.
Così, seppur con maggiore prudenza, le mie visite continuarono.
Ma ormai non vi era freno alle chiacchiere in paese. I giovani più
intraprendenti salivano alle rocce per spiare il piccolo gruppo, e tornavano
con resoconti spaventosi.
Moro era diventato nei loro racconti una belva mostruosa, le tre donne
delle orribili, malvagie streghe, capeggiate da Alesia, che ormai chiamavano
“la Papessa” per via del lungo bastone ricurvo che aveva spesso con sé.
E il vecchio Biagio era descritto nientemeno che come il demonio stesso,
che zoppicava sui suoi piedi caprini. Ero costretta a morsicarmi la lingua,
per non rivelare furente a cosa erano dovuti i suoi piedi deformi.
Per tutto l’autunno e l’inverno le voci si rincorsero e si gonfiarono
sempre più, arricchendosi ad ogni passaggio di nuovi orribili dettagli.
Pareva che sabba e riti satanici sulla Rovella fossero ormai cosa frequente.
La situazione precipitò con l’anno nuovo, il giorno prima dell’Epifania.
Quel mattino il parroco ebbe una pessima sorpresa: tutte le galline del
suo pollaio erano state sgozzate, ed il gallo era scomparso.
Fino a qualche mese prima, la colpa sarebbe ricaduta come logico sulla
volpe o sulla faina. Ma in quell’atmosfera di paura e sospetto, si disse
subito che le streghe avevano mandato il loro famiglio, il grande cane
nero, ad uccidere proprio le galline del curato: cos’era quello, se non
un attacco voluto alla Santa Madre Chiesa?
E il gallo, per cosa poteva essere stato rubato, se non per compiere
un orrido rito satanico nella santa notte dell’Epifania?
Fu deciso di formare una squadra di uomini coraggiosi da mandare alla
Rovella per catturare i seguaci del maligno e consegnarli ai devoti inquisitori.
Però, siccome nessuno dei nostri impavidi guerrieri aveva il coraggio
di affrontarli di notte, fu deciso che sarebbero andati a prenderli col
chiaro, il giorno successivo.
Una terribile agitazione si impossessò di me. Dovevo trovare
il modo di avvisare Alesia e gli altri. Ma come, come? Quale pretesto inventare
per salire alla Rovella in pieno inverno? Affacciata alla finestra mi tormentavo
senza trovare una risposta. Il giorno declinò rapidamente, e presto
venne sera, poi notte.
Dopo la cena la mia famiglia si preparò a salire alle camere
superiori per la notte. Io, con il pretesto di non avere sonno, dissi che
sarei rimasta lì a pregare per coloro che avrebbero affrontato le
streghe il giorno successivo. Mi chiesero se non temessi i malefici del
demonio in quella notte di magia cattiva. Mostrai loro il mio rosario,
e risposi che non temevo nulla, che andassero pure a dormire, e così
fecero, borbottando ancora una volta per le mie stranezze.
Appena fui certa che tutti dormivano, indossai un mantello pesante,
presi una lanterna ed uscii nella notte. Attenta a non farmi sorprendere,
imboccai il sentiero che portava alla montagna ed iniziai la salita.
Fu una fortuna che quell’anno avesse nevicato poco. La neve mi arrivava
appena alle caviglie, ai polpacci nei punti più alti. Così,
affaticata ed infreddolita, in piena notte giunsi alla porta di Alesia.
Fui accolta premurosamente, pur col mio fardello di brutte notizie.
Alesia ascoltò seria ed imperturbabile il mio racconto, e i miei
avvertimenti su quanto volevano fare gli uomini del paese. Matilde e Benedetta
intanto tentavano inutilmente di trattenere i singhiozzi, e il vecchio
Biagio scuoteva il capo, sconsolato.
“Dobbiamo partire” sentenziò Alesia “Non abbiamo scelta. Ma…”
sorrise “…non dobbiamo farlo subito”. La guardai, allarmata per la sua
temerarietà.
“La notte è ancora lunga” aggiunse “E useremo le prossime ore
per pregare la Dea e propiziarci il viaggio. Sarà anche opportuno
controllare la strada. Coraggio, prepariamoci per il rito!”
Asciugandosi le lacrime, le ragazze si alzarono, ed andarono a prendere
un otre d’acqua ed alcune ampolle di vetro, mentre Biagio appendeva il
paiolo e riattizzava il fuoco nel camino.
Io li guardavo con apprensione. In cosa stavano per coinvolgermi? Avevo
avuto fiducia in loro, ma adesso… e se avessero evocato davvero il maligno?
Alesia mi guardò sorridendo, come se avesse indovinato i miei
pensieri. “Non aver paura Maìn. Non ti accadrà nulla di male
qui stanotte. Ma imparerai qualcosa. Consideralo il mio regalo d’addio”
Una parte dell’acqua venne versata nel paiolo, un’altra in una ciotola,
che venne posta sul pavimento. Matilde, Benedetta e Biagio sedettero a
terra attorno alla ciotola, invitando anche me a sedermi con loro.
Intanto Alesia versava il contenuto di alcune delle ampolle nell’acqua
che bolliva nel paiolo. Intanto bisbigliava delle frasi in una lingua che
non conoscevo. Dopo qualche minuto, versò la miscela così
ottenuta in un’altra ciotola. Poi si sedette con noi, portando la ciotola
di liquido caldo, e un’altra ampolla.
Passò la ciotola a Benedetta, che sedeva alla sua sinistra.
La ragazza bevve un sorso e passò il recipiente a Matilde che fece
lo stesso e lo passò a Biagio. Anche lui bevve e la ciotola giunse
a me. Io esitai. Il profumo era buono, balsamico. Bevvi con cautela. Il
sapore della pozione era intensamente amaro all’inizio, ma poi sfumava
in un retrogusto gradevole e quasi dolce. Resi la ciotola ad Alesia, che
bevve a sua volta.
A quel punto Alesia pronunciò le parole di una formula che da
allora è indelebilmente impressa nella mia mente, ma che non posso
ripetere.
Poi passò l’ampolla a Benedetta, che si versò alcune
gocce di un unguento verde su una mano, poi fece qualcosa che mi sconvolse:
sollevò le sottane, e si passò quella sostanza tra le cosce.
Matilde la imitò, e anche Biagio si infilò una mano nelle
brache per ungersi allo stesso modo. Quando l’ampolla mi fu passata, avvampai
d’imbarazzo. Alesia mi incoraggiò con un sorriso ed un cenno del
capo. Non osai rifiutare, e goffamente imitai i gesti degli altri. Anche
Alesia, per ultima, usò l’unguento su di sé.
Poi ci invitò a fissare l’acqua nella ciotola davanti a noi,
ed iniziò a ripetere e ripetere una frase incomprensibile,
oscillando lentamente avanti e indietro.
Ad un certo punto mi resi conto che non riuscivo a distogliere il mio
sguardo dal fondo dell’acqua, dove pian piano stava prendendo forma qualcosa…
come un piccolo punto di luce bianca.
Mi girava la testa, e dalle cosce sentivo un leggero bruciore, che
si diffondeva come un caldo formicolio per tutte le gambe. Gradatamente
quel punto nell’acqua divenne più grande, e sembrò girare
su sé stesso, come un piccolo gorgo.
E poi, in fondo all’acqua, vidi qualcos’altro: degli alberi, un sentiero.
Un paese, il mio paese! Ma lo vedevo dall’alto, come se io fossi un uccello
e stessi volando. Improvvisamente sentii anche il vento sulla faccia e
sui capelli, e vidi che attorno a me anche Alesia e gli altri volavano
nell’aria notturna.
Salimmo ancora più in alto, sopra il paese ancora addormentato,
e vedemmo la casa di Alesia addossata alla roccia sulla montagna. Benedetta
fece un piccolo strillo, volando si avvicinò a me e mi prese per
mano.
Superammo quella ed altre montagne innevate. Poi scendemmo in una valle,
dove un lago rifletteva placido la luce delle stelle. Salimmo di nuovo.
Ancora valli, boschi e praterie. Stavamo planando verso una vasta pianura,
ed improvvisamente al mio sguardo si presentò una grande città.
Mura fortificate la cingevano, le guglie di una grande cattedrale svettavano
nere contro il cielo. Case e palazzi, e strade intricate si dipanavano
sotto di noi. Una bandiera sventolava in cima alla torre di un possente
castello. Alesia la osservò con attenzione, e nonostante fossimo
al buio la vidi distintamente sorridere ed esclamare “Ah, sì!”.
Poi il volo si interruppe. Mi sembrò di cadere e gridai, chiudendo
strettamente gli occhi e stringendo forte la mano di Benedetta. Quando
li riaprii, mi ritrovai nella casetta sulla montagna. Benedetta era distesa
sul pavimento accanto a me, e ansimando stringeva ancora la mia mano. Biagio,
seduto a terra, si strofinava la fronte, mentre Alesia stava aiutando Matilde
a tirarsi in piedi.
Un lampo divertito passò negli occhi della “Papessa”. “Allora,
Maìn, t’è piaciuto il viaggio? Hai visto qualcosa di
interessante?”
“Oh, Alesia! Ho visto boschi, valli, montagne… e una città!
Una città grandissima, e un castello, e… Ma come hai fatto?”
“Ci vorrebbero anni per spiegarlo, mia piccola amica. Ciò che
abbiamo fatto è stato di grande utilità. Quella che abbiamo
visto è una grande città della Francia, e la bandiera
che sventolava sul castello mi conferma che ora è governata da una
famiglia amica: Iniziati delle antiche tradizioni. Se riusciremo a raggiungerla,
ci accoglieranno, e saremo salvi. E’ una buona notizia”
Gli animi si rasserenarono un poco, ed un barlume di speranza pervase
visibilmente la piccola compagnia.
“Ora però davvero dobbiamo partire. L’alba si avvicina.”
Scendemmo insieme verso valle, in silenzio. Come già un’altra
volta ci fermammo alla biforcazione del sentiero.
“Vuoi venire con noi, Main?” Il sussurro di Alesia mi prese di
sorpresa. Non mi aspettavo quella proposta. “La nostra vita è pericolosa,
è vero. Ma siamo liberi. E conosciamo cose che quasi più
nessuno ricorda. Puoi lasciare questo piccolo villaggio di gente ignorante,
e venire con noi ad una nobile corte, dove potrai diventare una dama sapiente,
come lo sono io. Non ti piacerebbe, Maìn?”
Pensai alla bella città e al possente palazzo. Alle conoscenze
che mi avrebbero permesso di svelare arcani segreti, persino di volare
come un uccello! E poi pensai ai miei genitori che stavano invecchiando,
alle mie sorelle e ai miei fratelli, che si sarebbero disperati per la
mia sparizione. Avrebbero dato la colpa alle streghe. Ci avrebbero inseguiti
e braccati. No. C’era un’altra scelta, un’altra via. Sorrisi alla Papessa.
“No, Alesia, mia nobile signora. Non posso seguirvi. Ma posso fare
in modo che ve ne possiate andare indisturbati. Sono o non sono la ragazza
più furba del paese?” aggiunsi scherzando per mascherare la commozione.
“Allora ti lascerò un dono” Alesia estrasse dalla bisaccia un’ampolla
piena dell’unguento verde. “Sai come usarlo e quali sono le parole da dire.
Ogni volta che vorrai volare, di venire a vedere come sto, usalo! Io ti
sentirò”
Lo presi turbata, ed abbracciai tutti un’ultima volta. Poi li vidi
sparire nel buio, per sempre.
Giunsi a casa poco prima dell’alba. Nascosi nella stalla gli zoccoli
ed il mantello bagnati. Quando la mia famiglia scese, mi ritrovò
seduta davanti al focolare spento, nella stessa posizione in cui mi avevano
lasciata la sera prima, il rosario in mano.
“Oh, sapeste cos’è successo stanotte! Ho scacciato le streghe….”
E raccontai loro quella sciocca storiella della buonanotte e della malanotte.
La stessa sciocca storiella che ora tutti si tramandano come oro colato,
e che mi permette questa lunga, confortevole vecchiaia.
Naturalmente la spedizione contro le streghe ebbe luogo come progettato,
ma nella casetta sulla Rovella trovarono soltanto una placida vacca. Le
streghe erano scomparse. Così io me ne presi il merito, e fui festeggiata
per giorni.
Non mi sono mai sposata. Alla morte dei miei genitori, sono rimasta
nella mia casa natale a vivere con la famiglia del mio fratello maggiore.
Sono la zia zitella. Ma a me va bene così. Non mi andava di servire
un uomo: ho preferito lavorare per la mia famiglia. E i miei nipoti sono
contenti di avermi con loro. In fondo sono una persona importante, e loro
menano vanto d’avermi come parente.
Nel segreto della mia stanza, ho usato per molti anni l’unguento datomi
da Alesia. Così ho saputo che si sono salvati tutti, e che hanno
avuto una vita interessante, anche se mai tranquilla.
Purtroppo da più di vent’anni, pur centellinandolo, l’unguento
è terminato. Così non volo più, se non con la mia
fantasia. E talvolta esco ancora a cercare i tesori delle fate, nei boschi
dietro casa.
Nota dell’autore: I fatti che sono stati descritti nel paese di Triora
in Liguria sono realmente accaduti nel 1588. Per il nome di Alesia, mi
sono ispirata ad un capitolo del libro “Le Streghe” di Vanna de Angelis,
(edito da Piemme) dove si parlava proprio dei processi di Triora. Consiglio
peraltro a tutti di leggere quel libro, è appassionante e molto
ben documentato sulle reali motivazioni della caccia alle streghe. |