Il canto del Bardo
Racconti

 
LA VERA STORIA DELLA MAIN

“La Papessa e la Maìn

In un cantone di Bioglio, in Ca’ d’Ordzui, si diceva che la montagna della Rovella ospitasse le forze del male e fosse quindi un covo di streghe comandate da una sorta di Papessa. Si racconta che la masca (cioè la strega) se ne andasse in giro accompagnata da un feroce cane nero chiamato Moro. La notte dell’Epifania era ritenuta la più propizia per i diavoli e le streghe, così in quel giorno, al crepuscolo i paesani dovevano rinchiudersi in casa per non essere vittime di qualche maleficio. Maìn (un diminutivo per Maria) era una donna famosa a Bioglio per la sua furbizia e la sera dell’Epifania non aveva alcuna voglia di andare a letto prima del tempo. Gli altri famigliari la ammonirono e poi, sapendola ostinata, le voltarono le spalle lasciandola a vegliare da sola. A un tratto, quando era ormai notte fonda, la donna sentì un ululato, e  poi un altro, e un altro ancora. Era chiaro che il cane della Papessa stava scendendo dalla Rovella verso Ca’ d’Ordzui e verso l’unica finestra illuminata. Infatti di lì a poco sentì la Papessa chiederle “Cosa fai Main?” La donna, che voltava le spalle alla finestra, non rispose, e così la strega continuò: “Se ti giri per un solo momento ti darò la buonanotte”. Maìn si voltò, e puntando un dito contro la Papessa disse: “La buonanotte a me e la malanotte a te”. Fu così, che pronunciando questa semplice formula, che la strega scomparve con il suo seguito per sempre, liberando il paese dal terrore.”
Tratto da “Guida al Biellese misterioso e sconosciuto” di Marco Conti.

So cosa raccontano di me. Ora che gli anni sono passati, ed io sono quasi centenaria, la mia è una leggenda. 
Oggi io  sono una personalità, onorata e rispettata in paese: dicono che io abbia scacciato le streghe. 
Ingenui. Se solo sapessero!
Ma il mio segreto è al sicuro, visto che ormai sono l’unica a conoscerlo, e me lo porterò nella tomba: voglio trascorrere in pace i miei ultimi anni, servita e riverita da tutti, compreso il parroco. 
Un’ultima volta mi concedo di rievocare il passato, di riviverlo narrandolo stanotte a me stessa e stelle…

Sono sempre stata curiosa, sempre. Sin da bambina, quando per gioco cercavo i tesori delle fate nei boschi dietro casa. 
Lo rimasi anche più avanti, quando crebbi e la luna iniziò a strappare ogni mese dal mio ventre rosse ondate di dolore. E mia madre diceva che ormai ero una donna fatta, che avrei dovuto pensare a trovarmi un buon marito, e smettere di seguire i capricci della mia fantasia. 
Ma in fondo sapevo che i miei genitori e i miei fratelli, pur giudicandomi un po’ stramba, mi amavano e rispettavano la mia testa matta: in fondo chi aveva sempre le idee migliori in famiglia, se non io?
Così ignoravo i pretendenti, e salivo ogni giorno verso la montagna con le quattro capre che erano la maggiore ricchezza della famiglia, e mentre loro pascolavano, io contemplavo il cielo e disegnavo esseri fantastici con le nuvole, o mi raccontavo fiabe e leggende che io stessa inventavo.
Una fresca e limpida mattina di fine estate, mi ero fermata a bere ad una fontana lungo il sentiero. Sentii in lontananza l’ululato di un cane. O di un lupo? 
Mi spaventai un po’. Sapevo che difficilmente i lupi cacciano in pieno giorno e vicino ai sentieri, ma chi mai può sapere cosa arriva a fare un predatore spinto dalla fame?
Così mi voltai, il mio bastone in mano, pronta a tutto per difendere le mie bestie. Ma, ancora distante, saliva dal sentiero una persona accompagnata da un grosso cane nero. Quando fu più vicina, vidi che si trattava di una donna, che procedeva appoggiandosi ad un lungo bastone ricurvo e scolpito. Un’ingombrante bisaccia le pendeva da una spalla. 
Era vestita con abiti dalla foggia un po’ strana. Non erano nuovi, ma sicuramente di una stoffa molto più bella e fine della mia semplice gonna di lana ruvida e della mia camicetta di lino grezzo.
Al contrario, gli abiti della sconosciuta erano colorati di vari toni di marrone e rosso cupo, mentre attorno alla testa aveva avvolto un velo color del rame con ricami rosso scuro. Era una donna imponente, scura di carnagione, dagli occhi neri e profondi. I suoi capelli bruni mostravano le prime striature di grigio.
Quando fu giunta in vetta al pendio, e mi fu vicina, vidi che era più alta di me di almeno tutta la testa. La sua espressione era benevola, ma altera. Mi faceva sentire intimidita ed imbarazzata, e questo non mi era mai capitato con nessuno, in vita mia.
Tuttavia la sua voce era molto dolce, e con uno strano accento, quando mi chiese di poter bere alla fontana, quasi come se la fontana mi appartenesse. Non riuscii a trovare le parole per risponderle, così in silenzio risciacquai la mia tazza di latta, e gliela porsi piena d’acqua. Lei si dissetò, mentre il suo cane, che mi parve massiccio, peloso e grande quasi come un orso, si serviva da sé alla sorgente. 
Restituendomi la tazza, la sconosciuta mi fissò a lungo negli occhi. Sembrava che leggesse dentro di me, e io non sapevo distogliere il mio sguardo. Quando le nostre mani si toccarono casualmente mentre riprendevo il contenitore, il contatto mi diede un lungo brivido. 
Finalmente l’ispezione finì, e la signora sorrise ancora, di un sorriso dolcissimo, come se ciò che aveva visto le fosse piaciuto. 
“Qual è il tuo nome, ragazza?”
“Maria. Ma tutti mi chiamano Maìn. E’ perché sono piccola e magra.” 
“E dimmi, Maìn, sai se c’è qualche buon riparo sulla montagna? Il mio Moro, qui, non ama la compagnia della gente. E nemmeno io. Ma questi luoghi mi piacciono, e mi sembrano tranquilli. Vorrei fermarmi per un poco.”
Mi sembrò strana la sua richiesta. Ma in quella signora tutto era strano. Pensai un attimo, e poi mi venne in mente quella parete di roccia, su per la Rovella, dove c’era una specie di piccola rientranza, quasi una grotta poco profonda. Mi ero riparata là da un temporale una volta che ero salita ai pascoli più alti, dove però i pastori si avventuravano raramente. 
Sicuramente quel posto isolato sarebbe piaciuto alla signora, se non amava vedere gente. E poi c’era anche un ruscello lì vicino, e un grande prato davanti.  Così glielo dissi, e le spiegai come arrivarci. Ancora una volta venni ringraziata, poi lei si avviò su per il sentiero, sempre seguita dal suo nero compagno, in direzione della Rovella.
Io rimasi lì, piena di curiosità e tormentata dalle domande che non avevo osato porre.
Quando tornai a casa, quella sera, non parlai a nessuno del mio incontro. Ero gelosa del mio segreto, e qualcosa in fondo a me mi imponeva di tacere. Ma la curiosità bruciava dentro me come brace in un camino.
Non seppi resistere a lungo. Pochi giorni dopo partii prima del solito al mattino, con le mie capre e un involto sotto il braccio. Volevo salire sino ai pascoli alti, mi dicevo. Soltanto per cambiare foraggio alle bestie. Ma sapevo che la verità era un’altra.
Camminai lentamente, aspettando le bestie ogni volta che si attardavano a brucare. Quasi a mezzogiorno giungevo alla Rovella, e mi avvicinavo alla parete di roccia. Subito notai dei cambiamenti. La rientranza che ricordavo non era più visibile, perché davanti era stata costruita una semplice struttura in legno e paglia, una specie di capanna addossata alla roccia, e intorno a questa un basso steccato. Un filo di fumo saliva da un focolare acceso davanti alla capanna. Man mano che mi avvicinavo iniziai a sentire, portato dal vento, un invitante profumino. 
Quando giunsi di fronte allo steccato, la signora stava versando il contenuto di un piccolo paiolo di rame in due ciotole di legno. Il grande cane nero era disteso lì accanto e mi guardava tranquillo, la rosea lingua pendula dalle enormi fauci.
“Ti aspettavo, Maìn. Benvenuta. Ecco la tua zuppa.” Una ciotola di fumante, profumata zuppa d’erbe mi fu messa in mano, insieme ad un cucchiaio di legno. Stupita, guardai la signora, mentre mi sedevo sul masso piatto che mi veniva indicato come sedile.
“Come sapevate che ero io, e che sarei venuta oggi?” 
La signora rise brevemente: “Magia…” disse, e io mi ritrassi spaventata. La magia era opera del demonio. Dunque ero nell’antro di una strega!
La signora tornò seria “No, nessuna magia. Preparo sempre zuppa in abbondanza, per averne anche per la sera. E in quanto a sapere che eri tu… me l’ha detto il Moro. O meglio non ha detto nulla. Lui si ricorda di te, perciò non ha abbaiato. Fosse stato qualcun altro, si sarebbe allarmato. Tutto qui. Niente magia” disse allargando le mani davanti a me, come per mostrarmi che non nascondeva nulla. 
Ero ancora spaventata, ma sorrisi per non mostrare il mio timore, e sorbii la zuppa, dopo essermi assicurata che anche la signora prendeva la sua senza esitazioni.
Finita la minestra, estrassi dall’involto la piccola forma di formaggio che avevo portato in dono, e ne consumammo un pezzetto a testa. Moro si mangiò la crosta, e scodinzolò contento. Iniziavo a sentirmi più a mio agio. 
Ogni tanto i miei occhi correvano al prato lì davanti, per assicurarmi che le mie capre brucassero tranquille. Poi la signora si allontanò, e mi fece cenno di seguirla e di sedermi accanto a lei sull’erba all’ombra delle rocce. 
Le colline si stendevano tranquille davanti a noi, e facendo scorrere lo sguardo sui rilievi più lontani, la signora cominciò a parlare a voce bassa:
“La tua compagnia mi è preziosa, piccola Maria. Sei la prima persona con cui parlo da molte settimane. Voglio raccontarti la verità, poi tu deciderai se vuoi continuare a venire a trovarmi. Non voglio arrecarti alcun male, Maìn. 
Il mio nome è Alesia, e vengo dalla Liguria,  un luogo ove sono insieme mare e alti monti. Il mio paese è Triora, e sono di nobile famiglia. 
Ho viaggiato a lungo, in molti paesi. Ho percorso la Francia, e il paese degli Alemanni. Ho attraversato il mare per raggiungere l’isola di Albione, e ho molto veduto, molto studiato. 
Poi la sventura si è abbattuta sulla mia terra, che per secoli era stata un luogo felice e prospero. Negli ultimi due anni, purtroppo, una grave siccità ha inaridito i campi del mio paese, e recato malattie alle greggi. 
Gli anziani del paese, aizzati da alcuni monaci di passaggio, hanno dato la colpa alle streghe, poiché ora ogni disgrazia pare provenire dai malefici del demonio portati sulla terra da donne malvagie. Così un inquisitore e i suoi serventi sono arrivati a Triora. Hanno imprigionato e torturato molte donne, senza curarsi della loro età o del loro rango. Bambine e anziane, popolane e nobili dame sono state sottoposte ai tormenti per costringerle a confessare riti blasfemi e malefici.
Avvertita dalla mia famiglia, sono tornata al paese per scoprire che le mie parenti, le mie amiche, molte delle donne che conoscevo erano morte, o portate in prigionia a Genova. Qualcuno informò l’inquisitore del mio ritorno, e furono mandate le guardie per trarre prigioniera anche me. Solo grazie ad un inganno e alla fortuna sono riuscita a fuggire e mettermi in salvo. Da allora vago fuggiasca, alla ricerca di un luogo dove potermi nascondere, almeno per un po’, in pace.”
Le prediche e gli ammonimenti del curato frullavano nella mia mente come neri uccelli impazziti: “Guardatevi dal demonio e dai suoi accoliti, guardatevi dai servi del maligno che vi possono ghermire e trascinare con loro nel profondo dell’inferno…”
“Ma… era vero?” Riuscii a sillabare, impedendomi a stento di balzare in piedi e di fuggire a rotta di collo giù per il pendio: “Era tutto vero? Erano streghe? Siete una strega anche voi, signora ?”
Alesia volse lentamente la testa verso di me, e il suo sguardo scavò profondamente dentro il mio. Nei suoi occhi vidi soltanto dolore, e sincerità. 
“No, non era vero. Non nel senso che intendono i preti, almeno. Vedi, da tempo immemorabile le donne della mia terra si tramandano di madre in figlia ricette e nozioni molto antiche. Non sono malefici, ma anzi cure per i dolori del corpo e dello spirito. 
Ma i preti sono gelosi di questa sapienza. Vorrebbero essere gli unici depositari di tutto il sapere, per togliere alle persone ogni altra speranza che non sia la loro religione, per avere più potere sul popolo. 
E soprattutto vogliono sottomettere ed umiliare donne, perché ci odiano e temono il potere che ogni donna possiede. Vogliono farci credere che si tratta di una cosa sbagliata, sporca e peccaminosa. Vogliono ricacciare nell’oblio la saggezza e il sapere delle donne, che sia dimenticato per sempre, poiché ci vogliono ridurre in servitù a un dio che ama solo gli uomini, e disprezza le donne. 
Noi non facevamo alcun male. Curavamo la gente ed onoravamo la fertile terra. Ma se questo vuol dire essere streghe, ebbene sì: eravamo streghe. Io sono una strega. Ora dimmi, Maìn: hai paura di me?”
Dai miei occhi scendevano lacrime di commozione. Non potevo credere che ci fosse alcunché di maligno in quella nobile signora. No. 
E anch’io avevo sentito bisbigliare le donne, quando erano in casa al sicuro da orecchie estranee, sul fatto che una volta le anziane sapienti potevano curare certe malattie, ma che adesso era pericoloso, il prete non voleva…
“No, signora. Non ho paura. E vi aiuterò, se posso.”
“Grazie Maìn. Ma non raccontare a nessuno di me. Nemmeno ai tuoi. Non dire che mi conosci. Potrebbe essere pericoloso per te. Non ci vuol nulla per finire in qualche segreta con gli spilloni arroventati piantati in corpo. Credimi.”
Promisi. Ma da allora, almeno una volta alla settimana, salivo fino ai pascoli alti, per incontrare Alesia, e farmi raccontare dei suoi viaggi, di tutte le persone importanti, sapienti, o soltanto strane che aveva incontrato nel suo vagabondare per l’Europa. E poi mi raccontava di città lontane, di palazzi e vie e strade, di mari, fiumi e monti che mai avrei visto nella mia vita. 
Della magia non parlava volentieri, e non voleva insegnarmi nulla. Diceva che non avrebbe potuto insegnarmi nozioni sufficienti per essermi davvero utili nella vita, ma solo trucchetti di poco valore, che avrebbero per di più potuto mettermi nei pasticci se qualcuno mi avesse sorpresa a praticarli. Ma a me andava bene così, e non insistetti. In fondo ero una ragazza semplice, non ero e non sarei mai stata una sapiente.
Ma l’autunno avanzava: presto non avrei più avuto alcun pretesto per salire alla Rovella. Era ottobre, e già l’aria era gelida lassù,  l’erba ingiallita e stenta. Tornai un’ultima volta, per salutare la mia amica e chiederle cosa avrebbe fatto lassù da sola.
La trovai intenta a riempire la bisaccia con i suoi pochi averi. Stava partendo.
“Dove vai, Alesia?”
Lei guardò il cielo grigio e sospirò: “Sta per nevicare. Devo ridiscendere in pianura, e sarà pericoloso. Ma se le cose andranno bene, tornerò in primavera, e non sarò più sola.”
Scendemmo insieme, sempre seguite da Moro, che ormai pareva affezionato a me quanto alla sua padrona.
Ci separammo appena sopra il paese, alla biforcazione con un sentiero che tagliava fuori le case. Alesia mi abbracciò a lungo, e dopo un ultimo “Arrivederci” la guardai scendere rapidamente, presto nascosta dai primi sbuffi di nebbia.
Quell’inverno passò lentamente per me. Ero triste, nervosa, preoccupata per la mia amica. Naturalmente non potevo spiegare nulla, e così la mia fama di stranezza crebbe e peggiorò in paese. 
Venne la primavera, anche l’ultima neve sulle alture si sciolse cantando in mille rivoletti giù per i pendii. Alla fine di aprile giudicai di avere atteso a sufficienza, e salii verso le rocce.
Ciò che vidi mi precipitò in una cupa disperazione. La capanna era deserta, il tetto semisfondato dalla neve, nel piccolo focolare già cresceva l’erba. 
“L’hanno presa” pensai “L’hanno presa e imprigionata. L’hanno torturata e uccisa, e io non la vedrò più”
Mi accasciai sull’erba, nello stesso posto dove tante volte mi ero seduta accanto ad Alesia, per ascoltare i suoi racconti sognando di paesi lontani. Forse mi appisolai.
Fu un lungo ululato a riscuotermi. 
“Moro, Moro!!” Gridai alzandomi. Il grosso cane correva festoso verso di me, col lungo pelo nero che danzava luccicando nel vento. E dietro di lui veniva Alesia, accompagnata da altre tre persone. Due ragazze bionde, circa della mia età, mi parve, e un uomo anziano, che zoppicava vistosamente. Tutti erano magri ed avevano un’aria affaticata.
Dopo aver abbracciato Alesia, offrii loro il latte delle mie caprette, che venne accettato con entusiasmo. Seppi che le giovani si chiamavano Matilde e Benedetta, e l’uomo Biagio. Purtroppo non  potei fermarmi a parlare con loro: era tardi e dovevo tornare.
Mia madre, quella sera, si stupì per la scarsità della mungitura, e mi sgridò, dicendo che facevo camminare troppo le bestie, che poi, troppo stanche, non davano più latte. Annuii, e mi allontanai in silenzio.
Ma il giorno dopo ero di nuovo alla Rovella. Ero troppo curiosa di sapere chi fossero le persone che Alesia aveva portato con sé, e quale fosse la loro storia.
Mentre mi avvicinavo lungo il pendio erboso, mi rallegrò il cuore vedere il fumo che saliva placido dal piccolo focolare accanto alle rocce. Arrivai in vista della capanna, a cui Alesia e gli altri stavano già lavorando per riparare il tetto.
“Per oggi va bene così” disse la signora. “Da domani vedremo di sistemarci meglio” aggiunse guardandosi attorno con uno sguardo vivace e le mani sui fianchi. Non l’avevo mai vista così vitale e serena, e ne fui felice.
A pranzo condividemmo la mia pagnotta di pane nero, e la zuppa d’erbe che avevo imparato ad apprezzare. Seppi che Matilde e Benedetta erano sorelle. Erano state le più giovani discepole di Erminia, la stessa donna che aveva tramandato le antiche conoscenze ad Alesia. Erano tra le poche ad essersi salvate dalla strage perpetrata al loro paese.
Matilde era stata denunciata per vendetta insieme alla sorella minore da un corteggiatore respinto. Erano fuggite ed erano state ospitate per qualche mese presso dei parenti, che però si sentivano in pericolo e non vedevano l’ora di disfarsi di quelle ospiti scomode. 
Biagio invece aveva servito come stalliere nella casa natale di Alesia. Era stato arrestato ed interrogato insieme al resto della servitù, poi era riuscito ad evadere dalle prigioni degli inquisitori. Ma recava a ricordo i piedi storpiati dalle torture.
Chi e dove fossero i parenti delle due sorelle, e grazie a quali contatti Alesia fosse riuscita quell’inverno a ritrovare loro due e Biagio non mi fu spiegato. E io reputai prudente non domandarlo.
La primavera lasciò il posto all’estate, e la piccola comunità non restò con le mani in mano. A giugno la piccola capanna di paglia era stata sostituita da una robusta struttura in pietra e legno addossata alla parete rocciosa, e costruita in a chi arrivava modo da essere poco visibile dal sentiero. 
Io continuavo a salire da loro almeno una volta la settimana. A quel punto anche i miei pretendenti più ostinati erano spariti, e mia madre sentenziò che sarei diventata una brutta vecchia zitella. Ma a me non importava. Anzi, pensando alla sorte di Matilde mi sentii fortunata.
Una mattina arrivai e trovai Biagio tutto intento a spazzolare con cura una bella mucca. 
“La montagna è generosa con chi la rispetta” fu l’unica risposta di Alesia alla mia domanda sulla provenienza dell’animale. E da allora ebbero latte e formaggio in abbondanza.
Forse fu per colpa della mucca, o forse fu la fatalità che tramava maligna, ma alla fine dell’estate la loro presenza cessò di essere un segreto. Qualcuno che cercava quel capo di bestiame mancante, o forse dei pastori curiosi, notarono il fumo del loro focolare. Videro le donne rimestare nel paiolo, e per loro poteva significare una sola cosa: stregheria.
I montanari presero ad inventarsi storie paurose su quel piccolo gruppo di fuggiaschi.
Avvisai Alesia e gli altri di quanto stava accadendo, ed a loro volta ne furono spaventati. Avevano sperato di poter restare indisturbati per più tempo nella nostra bella terra. 
Alesia mi raccomandò mille volte ancora di non dire a nessuno che li conoscevo. Mi esortò a guardarmi sempre le spalle quando andavo da loro. Ne andava della mia vita. L’avevo capito, e stavo attenta, ma non volevo abbandonare coloro che ormai consideravo buoni amici sventurati. 
Così, seppur con maggiore prudenza, le mie visite continuarono.
Ma ormai non vi era freno alle chiacchiere in paese. I giovani più intraprendenti salivano alle rocce per spiare il piccolo gruppo, e tornavano con resoconti spaventosi. 
Moro era diventato nei loro racconti una belva mostruosa, le tre donne delle orribili, malvagie streghe, capeggiate da Alesia, che ormai chiamavano “la Papessa” per via del lungo bastone ricurvo che aveva spesso con sé. E il vecchio Biagio era descritto nientemeno che come il demonio stesso, che zoppicava sui suoi piedi caprini. Ero costretta a morsicarmi la lingua, per non rivelare furente a cosa erano dovuti i suoi piedi deformi.
Per tutto l’autunno e l’inverno le voci si rincorsero e si gonfiarono sempre più, arricchendosi ad ogni passaggio di nuovi orribili dettagli. Pareva che sabba e riti satanici sulla Rovella fossero ormai cosa frequente.
La situazione precipitò con l’anno nuovo, il giorno prima dell’Epifania. Quel mattino il parroco ebbe una pessima sorpresa: tutte le galline del suo pollaio erano state sgozzate, ed il gallo era scomparso.
Fino a qualche mese prima, la colpa sarebbe ricaduta come logico sulla volpe o sulla faina. Ma in quell’atmosfera di paura e sospetto, si disse subito che le streghe avevano mandato il loro famiglio, il grande cane nero, ad uccidere proprio le galline del curato: cos’era quello, se non un attacco voluto alla Santa Madre Chiesa? 
E il gallo, per cosa poteva essere stato rubato, se non per compiere un orrido rito satanico nella santa notte dell’Epifania?
Fu deciso di formare una squadra di uomini coraggiosi da mandare alla Rovella per catturare i seguaci del maligno e consegnarli ai devoti inquisitori. Però, siccome nessuno dei nostri impavidi guerrieri aveva il coraggio di affrontarli di notte, fu deciso che sarebbero andati a prenderli col chiaro, il giorno successivo.
Una terribile agitazione si impossessò di me. Dovevo trovare il modo di avvisare Alesia e gli altri. Ma come, come? Quale pretesto inventare per salire alla Rovella in pieno inverno? Affacciata alla finestra mi tormentavo senza trovare una risposta. Il giorno declinò rapidamente, e presto venne sera, poi notte. 
Dopo la cena la mia famiglia si preparò a salire alle camere superiori per la notte. Io, con il pretesto di non avere sonno, dissi che sarei rimasta lì a pregare per coloro che avrebbero affrontato le streghe il giorno successivo. Mi chiesero se non temessi i malefici del demonio in quella notte di magia cattiva. Mostrai loro il mio rosario, e risposi che non temevo nulla, che andassero pure a dormire, e così fecero, borbottando ancora una volta per le mie stranezze.
Appena fui certa che tutti dormivano, indossai un mantello pesante, presi una lanterna ed uscii nella notte. Attenta a non farmi sorprendere, imboccai il sentiero che portava alla montagna ed iniziai la salita.
Fu una fortuna che quell’anno avesse nevicato poco. La neve mi arrivava appena alle caviglie, ai polpacci nei punti più alti. Così, affaticata ed infreddolita, in piena notte giunsi alla porta di Alesia.
Fui accolta premurosamente, pur col mio fardello di brutte notizie. Alesia ascoltò seria ed imperturbabile il mio racconto, e i miei avvertimenti su quanto volevano fare gli uomini del paese. Matilde e Benedetta intanto tentavano inutilmente di trattenere i singhiozzi, e il vecchio Biagio scuoteva il capo, sconsolato.
“Dobbiamo partire” sentenziò Alesia “Non abbiamo scelta. Ma…” sorrise “…non dobbiamo farlo subito”. La guardai, allarmata per la sua temerarietà.
“La notte è ancora lunga” aggiunse “E useremo le prossime ore per pregare la Dea e propiziarci il viaggio. Sarà anche opportuno controllare la strada. Coraggio, prepariamoci per il rito!”
Asciugandosi le lacrime, le ragazze si alzarono, ed andarono a prendere un otre d’acqua ed alcune ampolle di vetro, mentre Biagio appendeva il paiolo e riattizzava il fuoco nel camino.
Io li guardavo con apprensione. In cosa stavano per coinvolgermi? Avevo avuto fiducia in loro, ma adesso… e se avessero evocato davvero il maligno?
Alesia mi guardò sorridendo, come se avesse indovinato i miei pensieri. “Non aver paura Maìn. Non ti accadrà nulla di male qui stanotte. Ma imparerai qualcosa. Consideralo il mio regalo d’addio”
Una parte dell’acqua venne versata nel paiolo, un’altra in una ciotola, che venne posta sul pavimento. Matilde, Benedetta e Biagio sedettero a terra attorno alla ciotola, invitando anche me a sedermi con loro.
Intanto Alesia versava il contenuto di alcune delle ampolle nell’acqua che bolliva nel paiolo. Intanto bisbigliava delle frasi in una lingua che non conoscevo. Dopo qualche minuto, versò la miscela così ottenuta in un’altra ciotola. Poi si sedette con noi, portando la ciotola di liquido caldo, e un’altra ampolla.
Passò la ciotola a Benedetta,  che sedeva alla sua sinistra. La ragazza bevve un sorso e passò il recipiente a Matilde che fece lo stesso e lo passò a Biagio. Anche lui bevve e la ciotola giunse a me. Io esitai. Il profumo era buono, balsamico. Bevvi con cautela. Il sapore della pozione era intensamente amaro all’inizio, ma poi sfumava in un retrogusto gradevole e quasi dolce. Resi la ciotola ad Alesia, che bevve a sua volta.
A quel punto Alesia pronunciò le parole di una formula che da allora è indelebilmente impressa nella mia mente, ma che non posso ripetere.
Poi passò l’ampolla a Benedetta, che si versò alcune gocce di un unguento verde su una mano, poi fece qualcosa che mi sconvolse: sollevò le sottane, e si passò quella sostanza tra le cosce. Matilde la imitò, e anche Biagio si infilò una mano nelle brache per ungersi allo stesso modo. Quando l’ampolla mi fu passata, avvampai d’imbarazzo. Alesia mi incoraggiò con un sorriso ed un cenno del capo. Non osai rifiutare, e goffamente imitai i gesti degli altri. Anche Alesia, per ultima, usò l’unguento su di sé.
Poi ci invitò a fissare l’acqua nella ciotola davanti a noi, ed iniziò a ripetere e ripetere una frase incomprensibile,  oscillando lentamente avanti e indietro. 
Ad un certo punto mi resi conto che non riuscivo a distogliere il mio sguardo dal fondo dell’acqua, dove pian piano stava prendendo forma qualcosa… come un piccolo punto di luce bianca. 
Mi girava la testa, e dalle cosce sentivo un leggero bruciore, che si diffondeva come un caldo formicolio per tutte le gambe. Gradatamente quel punto nell’acqua divenne più grande, e sembrò girare su sé stesso, come un piccolo gorgo. 
E poi, in fondo all’acqua, vidi qualcos’altro: degli alberi, un sentiero. Un paese, il mio paese! Ma lo vedevo dall’alto, come se io fossi un uccello e stessi volando. Improvvisamente sentii anche il vento sulla faccia e sui capelli, e vidi che attorno a me anche Alesia e gli altri volavano nell’aria notturna.
Salimmo ancora più in alto, sopra il paese ancora addormentato, e vedemmo la casa di Alesia addossata alla roccia sulla montagna. Benedetta fece un piccolo strillo, volando si avvicinò a me e mi prese per mano.
Superammo quella ed altre montagne innevate. Poi scendemmo in una valle, dove un lago rifletteva placido la luce delle stelle. Salimmo di nuovo. Ancora valli, boschi e praterie. Stavamo planando verso una vasta pianura, ed improvvisamente al mio sguardo si presentò una grande città. Mura fortificate la cingevano, le guglie di una grande cattedrale svettavano nere contro il cielo. Case e palazzi, e strade intricate si dipanavano sotto di noi. Una bandiera sventolava in cima alla torre di un possente castello. Alesia la osservò con attenzione, e nonostante fossimo al buio la vidi distintamente sorridere ed esclamare “Ah, sì!”.
Poi il volo si interruppe. Mi sembrò di cadere e gridai, chiudendo strettamente gli occhi e stringendo forte la mano di Benedetta. Quando li riaprii, mi ritrovai nella casetta sulla montagna. Benedetta era distesa sul pavimento accanto a me, e ansimando stringeva ancora la mia mano. Biagio, seduto a terra, si strofinava la fronte, mentre Alesia stava aiutando Matilde a tirarsi in piedi.
Un lampo divertito passò negli occhi della “Papessa”. “Allora, Maìn, t’è piaciuto il viaggio? Hai visto qualcosa di  interessante?” 
“Oh, Alesia! Ho visto boschi, valli, montagne… e una città! Una città grandissima, e un castello, e… Ma come hai fatto?”
“Ci vorrebbero anni per spiegarlo, mia piccola amica. Ciò che abbiamo fatto è stato di grande utilità. Quella che abbiamo visto è una grande  città della Francia, e la bandiera che sventolava sul castello mi conferma che ora è governata da una famiglia amica: Iniziati delle antiche tradizioni. Se riusciremo a raggiungerla, ci accoglieranno, e saremo salvi. E’ una buona notizia”
Gli animi si rasserenarono un poco, ed un barlume di speranza pervase visibilmente la piccola compagnia.
“Ora però davvero dobbiamo partire. L’alba si avvicina.”
Scendemmo insieme verso valle, in silenzio. Come già un’altra volta ci fermammo alla biforcazione del sentiero.
 “Vuoi venire con noi, Main?” Il sussurro di Alesia mi prese di sorpresa. Non mi aspettavo quella proposta. “La nostra vita è pericolosa, è vero. Ma siamo liberi. E conosciamo cose che quasi più nessuno ricorda. Puoi lasciare questo piccolo villaggio di gente ignorante, e venire con noi ad una nobile corte, dove potrai diventare una dama sapiente, come lo sono io. Non ti piacerebbe, Maìn?”
Pensai alla bella città e al possente palazzo. Alle conoscenze che mi avrebbero permesso di svelare arcani segreti, persino di volare come un uccello! E poi pensai ai miei genitori che stavano invecchiando, alle mie sorelle e ai miei fratelli, che si sarebbero disperati per la mia sparizione. Avrebbero dato la colpa alle streghe. Ci avrebbero inseguiti e braccati. No. C’era un’altra scelta, un’altra via. Sorrisi alla Papessa.
“No, Alesia, mia nobile signora. Non posso seguirvi. Ma posso fare in modo che ve ne possiate andare indisturbati. Sono o non sono la ragazza più furba del paese?” aggiunsi scherzando per mascherare la commozione.
“Allora ti lascerò un dono” Alesia estrasse dalla bisaccia un’ampolla piena dell’unguento verde. “Sai come usarlo e quali sono le parole da dire. Ogni volta che vorrai volare, di venire a vedere come sto, usalo! Io ti sentirò”
Lo presi turbata, ed abbracciai tutti un’ultima volta. Poi li vidi sparire nel buio, per sempre.
Giunsi a casa poco prima dell’alba. Nascosi nella stalla gli zoccoli ed il mantello bagnati. Quando la mia famiglia scese, mi ritrovò seduta davanti al focolare spento, nella stessa posizione in cui mi avevano lasciata la sera prima, il rosario in mano.
“Oh, sapeste cos’è successo stanotte! Ho scacciato le streghe….” E raccontai loro quella sciocca storiella della buonanotte e della malanotte. La stessa sciocca storiella che ora tutti si tramandano come oro colato, e che mi permette questa lunga, confortevole vecchiaia. 
Naturalmente la spedizione contro le streghe ebbe luogo come progettato, ma nella casetta sulla Rovella trovarono soltanto una placida vacca. Le streghe erano scomparse. Così io me ne presi il merito, e fui festeggiata per giorni. 
Non mi sono mai sposata. Alla morte dei miei genitori, sono rimasta nella mia casa natale a vivere con la famiglia del mio fratello maggiore. Sono la zia zitella. Ma a me va bene così. Non mi andava di servire un uomo: ho preferito lavorare per la mia famiglia. E i miei nipoti sono contenti di avermi con loro. In fondo sono una persona importante, e loro menano vanto d’avermi come parente.
Nel segreto della mia stanza, ho usato per molti anni l’unguento datomi da Alesia. Così ho saputo che si sono salvati tutti, e che hanno avuto una vita interessante, anche se mai tranquilla.
Purtroppo da più di vent’anni, pur centellinandolo, l’unguento è terminato. Così non volo più, se non con la mia fantasia. E talvolta esco ancora a cercare i tesori delle fate, nei boschi dietro casa.

Nota dell’autore: I fatti che sono stati descritti nel paese di Triora in Liguria sono realmente accaduti nel 1588. Per il nome di Alesia, mi sono ispirata ad un capitolo del libro “Le Streghe” di Vanna de Angelis, (edito da Piemme) dove si parlava proprio dei processi di Triora. Consiglio peraltro a tutti di leggere quel libro, è appassionante e molto ben documentato sulle reali motivazioni della caccia alle streghe.

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