La luna getta una fredda luce blu sul promontorio. Il fiume che scorre
lento, allargandosi in placide lame, giù in basso, oltre il dirupo,
ne riflette la luce spezzandola in milioni di scintille. Anche le stelle
sembrano brillare con un’intensità irreale, inconsueta. Come in
certe terse notti invernali.
Infatti il vento soffia gelido ed impetuoso.
Ma lei non sente alcun freddo. Lei non sente nulla, fuorché
il suo intenso dolore, una nostalgia che pare frantumarla sin nel profondo,
e la colpa…
“Perdonatemi… Tornate!”.
Ma nessuno le risponde. Lei si guarda intorno, il promontorio si tende
sopra la pianura sottostante, ricoperta da boschi raramente interrotti
da qualche pascolo. Quanto amava questa terra… Ma nessuno vive più
qui. Nessuno risponde ai suoi richiami. Solo l’erba secca fa sentire il
suo fruscio, scossa dal vento.
Lei fa qualche passo ancora, il vento scuote e attorciglia i suoi lunghi
capelli d’oro rosso contro il blu profondo del cielo notturno. E’ una donna
alta, imponente, altera e bellissima. E disperata.
No, non ci sarà perdono, non ci sarà ritorno, mai più
pace e felicità… mai più le voci degli amici, del padre,
della madre, e Isabella….
Le mancano le forze, il respiro spezzato dai singhiozzi. Cade sulle
ginocchia, e mentre le sue mani artigliano la terra, un lungo ululato di
agonia le sfugge dalla gola…
Monica si svegliò boccheggiando, preoccupata di aver allarmato
tutta la famiglia con le sue urla. Ma, soffocato dal cuscino, solo un lieve
mugolio usciva dalla sua gola contratta.
Si sedette sul letto, cercando di riprendere fiato. Ancora quel sogno…
Ormai era la sesta notte consecutiva. L’alba del settimo giorno dopo quella
maledetta gita scolastica…
Il professore di storia aveva voluto portare la classe a visitare un
luogo “leggendario”, aveva detto.
“Ricordate quanto abbiamo detto sul lungo, sanguinoso dissidio tra
guelfi e ghibellini, vero? Ecco, in questa zona, secondo gli studiosi,
sorgeva un paese che fu al centro di molte contese. Secondo gli studi compiuti,
proprio qui, su questo promontorio che domina l’ampia valle scavata dal
torrente Cervo, un tempo chiamato Sarv, sorgeva Ysengarda. Il paese fu
abbandonato presumibilmente attorno al 1510 per ragioni tuttora sconosciute,
ma veniva ancora citato in un documento stilato nel 1499, nel quale Sebastiano
Ferrero ne rivendicava….”
Senza parere, Monica era scivolata in coda al gruppo, per nulla interessata
alla spiegazione. Aveva già espresso ai compagni la sua precisa
convinzione che dovevano quella gita soltanto alla voglia del prof di fare
una passeggiata, incoraggiato dal sole di giugno e dal fatto che quella
era l’ultima settimana di scuola. E’ noto che i professori, esattamente
come i loro alunni, a giugno non pensano che alle vacanze imminenti, aveva
aggiunto sprezzante.
Così si era lasciata lentamente distanziare dal gruppo e si
era fermata in prossimità di un piccolo gruppo di querce.
E lì era cominciato tutto. Aveva provato una strana sensazione.
Non proprio un dejà-vu ma… qualcosa si muoveva in fondo alla sua
memoria. Una lieve sensazione di disagio, di estraniamento, un senso di
capogiro. Aveva allungato una mano per sostenersi ad uno degli alberi accanto
a lei, ma la mano appoggiata sulla corteccia rugosa le era sembrata aliena,
sconosciuta. Troppo piccola, troppo affusolata, troppo scura. Si era aspettata
di vedere una mano forte, grande. Una mano arrossata dal lavoro, con le
unghie rosicchiate e orlate di terra… ma perché? Le sue mani erano
sempre state così: minute, sottili e scure come peraltro lei stessa
era. Perché lei era… un altro capogiro. A quel punto non aveva potuto
fare a meno di sedersi ai piedi della quercia, con un furioso tumulto nella
mente, e la sua amica Anna, da lontano, l’aveva vista accasciarsi.
“Monica non sta bene!” aveva esclamato, precipitandosi verso
di lei. Le si era chinata accanto chiamandola. Monica aveva alzato lo sguardo,
ancora in preda a quella tremenda confusione.
“Isabella?…” aveva mormorato, suscitando lo sgomento della compagna.
“Monica! Monica! Cosa ti prende? Sono io, Anna, non mi riconosci?”
Intanto stava sopraggiungendo l’intera classe capitanata dall’insegnante.
“No, no! Scappate! Lui è qui, è qui!! Vi prenderà,
vi ucciderà tutti! Non riesco a fermarlo, non riesco…” Ormai l’isterismo
di Monica era fuori controllo, ed aveva preso a scalmanarsi e scalciare
furiosamente contro quanti la circondavano, cercando di fuggire.
A quel punto il professore si era deciso. Le aveva affibbiato un robusto
ceffone in pieno viso, chiamandola poi per nome e scuotendola.
Lei si era calmata, e per un lungo istante, lo aveva guardato imbambolata,
senza apparentemente riconoscerlo. Poi aveva spalancato gli occhi, ed era
scoppiata a piangere.
Un minuto dopo era appoggiata ad uno degli alberi che svuotava violentemente
lo stomaco. Per cui tutto lo sconcertante episodio era stato classificato
ed archiviato come un classico caso di congestione.
Sulla via del ritorno, il professore aveva concluso la gita con una
lunga disquisizione contro i rischi derivanti dal bere tutto d’un fiato
un intero bicchiere di acqua gelata quando si è accaldati, come
Monica aveva fatto poco prima, al bar del paese vicino.
Il problema pareva superato, ma la notte stessa Monica aveva avuto
il primo di quegli strani sogni, sospesi fra tristezza e terrore. Sognava
di sé stessa come di un’alta ragazza bionda, in preda a strazianti
sentimenti di nostalgia e senso di colpa, ma non capiva per quali motivi.
Si ritrovava quasi sempre sul promontorio della famosa gita, ma qualche
volta era deserto come quando l’aveva visitato con la classe, altre volte
c’erano delle macerie annerite, una volta invece vi aveva visto un paese.
Un fiorente paese fortificato, antico, imponente.
E poi ancora le era sembrato di essere al capezzale di una donna vecchissima,
sapendo che stava morendo. La vecchia le diceva qualcosa…
“Non sono riuscita a vivere per insegnarti abbastanza… …dovrai dimenticare
anche quello che sai… troppo pericoloso… Conosci l’arte del fare, ma non
quella del disfare… Prometti… Prometti che dimenticherai, prometti che
non lo userai…. Prometti…”
Al mattino si svegliava sempre confusa ed abbattuta, e in bagno si
guardava allo specchio aspettandosi di vedere un altro viso. Si pettinava
i corti capelli neri con la sensazione che la spazzola avrebbe dovuto invece
continuare a scendere attraverso lunghe chiome d’oro rosso.
I suoi genitori si erano accorti del suo umore tetro, e l’avevano guardata
severamente, temendo qualche brutta sorpresa con gli scrutini di fine anno.
Ma Monica li aveva rassicurati: andava tutto bene. Così la mamma
le aveva comprato un flacone di vitamine, raccomandandole di prenderle
ogni mattina. Ma ci voleva ben altro.
Così si era decisa. Doveva affrontare quella cosa.
Tutto aveva preso il via sul promontorio vicino a Candelo. E lei ci
sarebbe tornata. Avrebbe cercato di comprendere che cosa in quel luogo
l’avesse sconvolta così profondamente. Aveva bisogno di capire.
Il pomeriggio di quello stesso giorno prese il motorino, e si avviò
verso Candelo. Superato il centro storico, imboccò la strada verso
la Baraggia, e da lì la strada poderale che portava al promontorio,
il luogo noto come “la Bocca del Lupo”.
Giunta quasi a destinazione, dovette abbandonare il mezzo di trasporto,
e proseguire a piedi, attraversando una placida distesa di prati e campi
di mais appena nato, lievemente accarezzati da una brezza tiepida.
Raggiunse lo stesso luogo dove aveva avuto quelle prime, strane sensazioni.
Si sedette ai piedi di un albero ed attese.
Dapprima non accadde proprio nulla.
Il silenzio era rotto soltanto dal cinguettare degli uccelli e dal
ronzio degli insetti. Il sole batteva caldo sull’erba davanti a lei. Oltre
il dirupo la pianura, in lontananza, tremolava nella calura del pomeriggio,
velata di foschia.
Monica appoggiò la testa all’indietro, contro il tronco, e attese
ancora. Si sentiva avvolta da un piacevole torpore, e lentamente delle
immagini, dapprima confuse, poi sempre più precise, affluirono alla
sua mente.
Rivide il paese fortificato, dapprima prospero e pacifico, poi sempre
più spesso al centro di dispute e dissidi, in balìa dei branchi
di soldataglia e mercenari che si accampavano appena fuori le mura, per
lo più comportandosi come i malfattori che erano.
Rivisse la rabbia e la paura della popolazione, l’incertezza perenne,
la desolante sensazione di essere totalmente indifesi di fronte alla brutale
arroganza di quei soldati, che si definivano prodi combattenti di una guerra
di cui la gente comune nemmeno capiva le ragioni.
E dal passato le giunsero voci, e volti familiari. Suo padre, un tranquillo
artigiano, dagli occhi chiari e buoni, e i capelli precocemente grigi.
La madre, una donna pallida e magra, dalla salute malferma. E la sorellina
Isabella, allegra, biondissima e graziosa nei suoi spensierati dodici anni.
Ricordò infine la bisnonna Romilda, di cui portava lo stesso
nome, che l’aveva scelta anche come erede delle sue conoscenze.
Perché nonna Romilda era una sapiente, era colei alla quale
tutto il paese si rivolgeva in caso di malattie o di disgrazie, perché
conosceva le arti degli Antichi. Solo lei sapeva piegare le forze degli
spiriti e della natura per i suoi scopi. Solo lei conosceva virtù
e caratteristiche delle erbe, e come e quando coglierle, e come prepararle.
La nipote a cui era stato imposto alla nascita il suo nome era anche
l’unica che avesse manifestato il suo stesso tipo di predisposizione. Purtroppo
la successione era avvenuta troppo tardi. Prima che l’istruzione della
giovane Romilda fosse compiuta, l’anziana aveva dovuto soccombere all’età.
Aveva pregato la nipote di non ricorrere mai alle arti che aveva appreso,
poiché morta lei non esisteva più nessuno in grado di completare
la preparazione della giovane. Sarebbe stato troppo pericoloso evocare
forze che non sarebbe stata poi in grado di controllare.
Le arti degli Antichi, che le erano state tramandate di generazione
in generazione, richiedevano molti anni di studio per poter essere padroneggiate,
ed essendo questo ormai impossibile, dovevano morire con lei.
Inoltre ormai si sapeva di troppi roghi che si stavano alzando anche
in luoghi non lontani per ardere donne che, come l’anziana sapiente, troppo
conoscevano di cose arcane. Era necessario possedere grande esperienza,
saggezza ed abilità sia per padroneggiare che per nascondere quella
sapienza. Il minimo errore poteva essere fatale, per molti motivi.
La giovane Romilda aveva promesso di dimenticare quelle nozioni. E
nel momento in cui prometteva era sincera.
Ma poi venne quella terribile mattina. Quel tragico risveglio.
Il villaggio era già passato di mano più volte, ogni
volta pagando un tributo in vite umane, e in preziose scorte alimentari
trafugate. Però da parecchi mesi la situazione sembrava essersi
stabilizzata.
Romilda non sapeva nemmeno quale fazione vantasse il possesso di Ysengarda,
in quel periodo. I mercenari, dell’una e dell’altra parte, si somigliavano
tutti: allo stesso modo brutali, arroganti e pericolosi.
Ma una notte di ottobre, poco prima dell’alba, un centinaio di
uomini armati era sbucato da un passaggio segreto che si apriva nella cripta
della chiesa, collegato con una distante fortezza…
Si narrava da tempo immemorabile di una galleria, un passaggio segreto
nascosto chissà dove. Ma Romilda sino ad allora aveva creduto che
fosse solo una leggenda, niente più che una fiaba per spaventare
i bambini.
Invece i soldati erano dilagati proprio dal cuore del paese. Erano
entrati quasi in ogni casa, avevano rubato, ferito, ucciso, violentato.
Poi si erano accampati: i capintesta all’interno del paese, cacciando
di casa diverse famiglie, e la truppa appena fuori, accanto al grande bosco
di querce.
Ai paesani non era rimasto che fare l’ennesimo conto dei furti e delle
vittime. Il padre di Romilda era stato ferito ad una spalla e alla testa,
per aver tentato di difendere i suoi pochi averi.
E Isabella non si trovava più…
Dopo aver medicato il padre, Romilda aveva indossato un lungo mantello,
e nascondendo i lunghi capelli biondo-rossi sotto il cappuccio, aveva affrontato
il pericolo di essere a sua volta aggredita dalla soldataglia ed era uscita
con lui, in preda allo sgomento, per cercare la sorellina.
Non avevano dovuto vagare a lungo. Nel folto del bosco di querce, la
piccola, dolce Isabella era un mucchietto di stracci gettato in un angolo.
Con le magre gambe nude striate di sangue, il visetto bianco coperto di
lividi, le dita contratte delle mani ancora strette a coprirsi il petto.
Morta. Nemmeno aveva avuto il tempo di diventare donna.
L’avevano sepolta la sera stessa, mentre poco lontano i soldati ubriachi
cantavano canzoni scurrili e ridevano forte.
Il giorno dopo la madre impazzì. Sedette su una sedia accanto
al focolare, e da lì non volle più muoversi, perché
attendeva il ritorno di Isabella. Ripeteva vecchie filastrocche e parole
senza senso, e talvolta scoppiava in una risata agghiacciante.
Intanto i soldati non accennavano a volersi muovere dal villaggio.
Furti, violenze e privazioni erano diventati il pane quotidiano per Ysengarda.
Romilda aveva atteso e pregato. Aveva tentato di sopportare, aveva
ricordato le promesse fatte.
Ma poi non aveva resistito. Perché c’era qualcosa che poteva
fare. Qualcosa che, di nascosto, aveva visto fare alla nonna per punire
un torto, anni prima… Sapeva che era pericoloso, ma il suo cuore era disperato
e la sua anima esacerbata dall’odio.
Aveva mentito e rubato… Aveva ottenuto con l’inganno un po’ del latte
di un’amica che aveva partorito da poco, dicendole che voleva darne alla
madre malata, sperando che le restituisse la salute. Aveva visitato un
vicino di casa, anziano e moribondo, e uscendo aveva ne sottratto l’urina
dal pitale appena fuori la porta.
Era la fine di Ottobre. Aveva atteso la notte di Ognissanti. La notte
in cui si aprono le Porte. E nella notte era scivolata di nascosto nel
cimitero accanto alla chiesa.
Erano state le sue mani ad impastare la terra sulla tomba di Isabella…
Il latte, l’urina: congiungere l’inizio con la fine, creare il Cerchio,
chiudere il Cerchio… Si era ferita un dito e aveva lasciato cadere il sangue…
forgiare il Legame, pagare il Tributo, creare il Varco, aprire il Varco,
chiamare dal Varco, evocare la Tenebra…
E Lui era arrivato.
Preceduto da una zaffata di morte, un essere forgiato di una tenebra
tanto fitta da parere quasi palpabile aveva torreggiato brevemente sopra
di lei, come per osservarla, oscurando persino la luna. Poi si era dileguato,
ombra tra le ombre, per compiere ciò che era destino si compisse.
Da quella notte, ogni notte almeno uno dei mercenari morì di
una morte orrenda. Furono trovati nei boschi, nelle piazze del paese, persino
nelle case, orrendamente smembrati, mutilati come da una belva enorme e
spietata. Furono organizzate ronde e controlli, ma nulla valse. La belva
continuava a colpire.
Soldati ubriachi raccontavano di tenebre palpitanti, delle luci nelle
lampade e i fuochi nei bivacchi che si facevano lividi e fiochi, di soffi
di vento che odoravano di carne corrotta… dell’oscurità che si raccoglieva
minacciosa negli angoli, crescendo come il lievito fa crescere il pane.
E di artigli neri, taglienti come lame…
Dodici notti dovettero passare, diciannove uomini dovettero morire,
prima che il loro capitano decidesse che non era più possibile restare.
Se ne andarono, e il paese esultò.
Ma non a lungo.
Dopo tre notti di calma, all’alba un grido disperato si alzò
da una delle case del paese. Un ragazzo era stato trovato orrendamente
dilaniato, come da un’enorme belva…
Un gelido, muto orrore racchiuse da allora Romilda, mentre le morti
si moltiplicavano. Ogni notte una vittima, senza discriminazioni di sesso,
o d’età. Uomini e donne, vecchi e bambini, contadini e artigiani,
all’aperto o nel proprio letto… Nessuno era al sicuro.
Una notte Romilda uscì di casa, e si recò di nuovo al
cimitero. Recitò formule, pregò e si disperò. Rimpianse
di non aver mantenuto la promessa…
Improvvisamente la fetida Oscurità le soffiò accanto,
torreggiò un’altra volta su di lei, come per guardarla, oscurando
le stelle. Ma non la toccò, e scivolò via in silenzio. Dunque
non era lei che voleva…
Improvvisamente Romilda capì. La belva non l’avrebbe mai aggredita.
Perché era lei che l’aveva evocata, ed era lei che aveva pagato
il tributo del sangue. Da lei traeva la propria forza, la propria stessa
esistenza. Era il suo tramite, il suo legame con questo mondo. E Romilda
non aveva idea di come recidere quel legame.
Quando l’aveva evocata, l’entità era stata guidata dalla rabbia
di lei nella distruzione dei nemici. Ora, sfuggita la preda destinata,
colpiva a caso, per placare la propria fame insaziabile, infinita.
Quella notte ci fu un’altra vittima.
Presto anche gli abitanti di Ysengarda, come i soldati, presero a caricare
i loro averi su carri e cavalli, e a prendere la via per altri luoghi.
Qualcuno si trasferì nel vicino paese di Candelo, altri raggiunsero
parenti ed amici in altre località. Alcuni semplicemente partirono,
senza una destinazione precisa. In pochi mesi il paese si spopolò
quasi completamente.
Anche il padre di Romilda un giorno raccolse i propri averi, e caricata
la famiglia su un carro, chiese ospitalità ai parenti della moglie
a Candelo.
Ma Romilda si struggeva di rimorso, di nostalgia. E di terrore. La
sua colpa non poteva essere confessata, né perdonata. Non poteva
confidare ad alcuno ciò che aveva compiuto, non poteva mettere in
guardia chi le stava intorno. Non vi era rimedio.
Tuttavia, insediati che si furono a Candelo, per un po’ parve tornare
la pace. Per molte settimane non accadde nulla di strano, nulla di male.
Romilda si era ormai quasi convinta che la malefica entità fosse
rimasta a vagare nelle lande ormai deserte attorno ad Ysengarda, che non
la potesse più raggiungere.
Era ormai febbraio. Una sera, Romilda ed il padre si erano recati in
visita da alcuni vicini. Erano persino riusciti a persuadere la madre ad
unirsi a loro. Era ancor sempre silenziosa e malinconica, ma ora sembrava
più serena.
Com’era consuetudine d’inverno, la riunione si teneva nella stalla.
Alla luce delle lampade ad olio, nel tepore buono delle bestie che ruminavano
quietamente, diverse famiglie si riunivano per chiacchierare, cantare i
vecchi canti, mentre i bambini giocavano insieme nel fieno. Le donne filavano
o cucivano, gli uomini tenevano le mani occupate costruendo o riparando
gli strumenti agricoli.
Era una notte fredda, calma e senza vento. Ma all’improvviso la porta
della stalla si aprì violentemente, con un impeto tale da andare
a sbattere contro la parete di pietra. Il cicaleccio delle donne e le risa
dei bambini si interruppero di colpo. Tutti si guardavano stupefatti e
spaventati, mentre una zaffata di decomposizione invadeva il locale, superando
il pur forte sentore degli animali, che si agitavano nervosi. Le fiammelle
delle lampade sembrarono non mandare più luce e tremolare fino quasi
a smorzarsi. Nessuno fiatava, mentre un’atmosfera opprimente gravava sul
gruppo.
Poi, com’era venuta, l’inquietante sensazione scomparve.
Uno degli uomini si alzò per richiudere la porta, e vi fu chi
bisbigliò qualche commento impaurito. La maggioranza parve tuttavia
voler ignorare l’accaduto, imputandolo ad una folata di vento improvvisa.
E gli odori sgradevoli, all’epoca, non destavano certo molto scalpore.
Nessuno vi volle dare molta importanza. Ma Romilda conosceva la verità.
Lui l’aveva ritrovata.
La notte successiva, un anziano mendicante fu trovato morto, in uno
scempio di sangue e carne slabbrata. Si incolparono i lupi. In quel momento
Romilda fu certa di non avere più scampo.
Pochi giorni dopo, prese il cavallo del padre, e tornò a Ysengarda.
Il paese era deserto, e le erbacce avevano già cominciato a crescere
lungo le sue strade. Nessuno vi passava né vi sostava, e i contadini,
riuniti alla sera nelle stalle, già narravano dell’oscura belva
che l’infestava..
A chi prendeva la strada, ormai generalmente evitata, che portava al
pianoro di Ysengarda, si chiedeva tra risa che tentavano di celare la paura,
se intendeva cacciarsi “nella bocca del Lupo”. Quello stava ormai diventando
il nome del luogo.
Romilda pensò a tutto questo, mentre il pomeriggio si faceva
sera, e il crepuscolo saliva dai vicoli deserti.
Si recò al cimitero. Pregò a lungo sulle tombe della
bisnonna e della sorella, chiedendo perdono per ciò che aveva fatto,
e per ciò che stava per fare, pur sapendo che era l’unica soluzione
possibile.
Poi liberò il cavallo e lo fece correre via. Accese la torcia
che si era portata da casa, ed iniziò il suo lavoro. Passò
da ogni casa del paese, appiccando il fuoco alle coperture in legno e paglia
dei tetti, a tutto ciò che trovò di combustibile.
Terminata la sua opera di distruzione, salì ad osservarne i
risultati dall’alto delle mura esterne del paese, quelle che si innalzavano
sul limitare dello strapiombo.
La belva non avrebbe più avuto un luogo in cui tornare. E più
nessuna forza a cui attingere.
Volse le spalle alle fiamme che ormai ruggivano vicinissime a lei,
mentre le prime travature precipitavano in un mare di scintille, travolgendo
muri e strutture nella loro caduta.
Guardò a lungo la piana sottostante. Sembrava ancor più
calma, silenziosa e pacifica, in contrasto con l’inferno che si era scatenato
intorno a lei…
Osservò ancora un momento i boschi rigogliosi, laggiù,
illuminati dall’incendio. Oscuri e tranquilli, sembravano attenderla nella
loro pace.
E così Romilda trasse un lungo respiro, allargò le braccia,
e andò da loro…
Monica si svegliò con un ansito da uno strano sogno nel quale
stava cadendo da un dirupo.
E immediatamente seppe che non era stato un sogno. Che quelli erano
ricordi di un tempo remoto, “leggendario”, come diceva il suo professore.
Solo che quelle leggende non erano folclore superstizioso. Erano una
spaventosa realtà.
Si alzò in piedi, guardandosi intorno con il cuore in gola.
Ma la circondava lo stesso quieto, idilliaco paesaggio che l’aveva
accolta al suo arrivo. Campi placidi, farfalle tra l’erba, sole luminoso.
Oltre il dirupo la pianura non era più una distesa di boschi.
Le automobili sfrecciavano, sulla superstrada lontana, e vedeva chiaramente
i bagliori del sole sul grande centro commerciale di recente costruzione.
Ma no, si tranquillizzò. Non è più tempo di oscuri
riti e minacciose presenze occulte. Siamo in un’altra epoca, per fortuna.
Oggi la scienza ha spazzato via queste assurde superstizioni.
Raggiunse il motorino, e si affrettò verso casa. Suo padre non
ammetteva ritardi per l’ora di cena.
Verso le dieci di quella sera, nella sua camera Monica stava cercando
in Internet notizie sull’ultimo CD del suo gruppo preferito.
Improvvisamente la luminosità del monitor parve smorzarsi, come
anche la lampada sulla scrivania. Dalla porta socchiusa sentì la
voce seccata di suo padre che chiamava la madre dal salotto.
“Federica, cosa succede? Ci devono essere problemi con la tensione
elettrica. Il televisore non si vede quasi più! E cos’è ‘sta
puzza? Santo cielo! Deve essere saltata la fognatura… Adesso telefono all’amministratore
del condominio!”
Monica vedeva l’oscurità farsi via via più fitta, quasi
solida… come se stesse crescendo, prendendo forma…
E allora seppe. Lui l’aveva ritrovata. Un’altra volta, scavalcando
il tempo, l’aveva trovata di nuovo, e adesso tutto sarebbe ricominciato…
Scivolò a terra, si coprì la testa con le braccia e seduta
sul pavimento, oscillando disperatamente avanti e indietro, ripeteva ancora
e ancora: “Perché proprio io… Perché io… Perché io?” |